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Alpinismo | 22 aprile | 06:00

Che senso ha salire in montagna? O meglio: che senso ha scalare una montagna? "I conquistatori dell’inutile"

(L'editoriale) Che senso ha salire in montagna? O meglio: che senso ha scalare una montagna? Da molti è considerata un'attività inutile, perché abbiamo imparato a considerare “utili” soltanto quelle azioni che portano a un risultato quantificabile; che generano profitto. E così le azioni incommensurabili sfumano in un universo senza senso

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Che senso ha salire in montagna? O meglio: che senso ha scalare una montagna? 

È una domanda che si rinnova di frequente, assumendo forme particolarmente affilate soprattutto sulle lingue di chi, una parete, non l’ha mai affrontata.

 

In effetti, non hanno tutti i torti: dal punto di vista pratico, arrampicare è un’attività apparentemente inutile. Così com’è inutile - per citare Nives Meroi - cantare o dipingere; inutile come raccogliere i fiori da un prato per comporre un bel mazzolino, rifletteva nei suoi appunti Walter Bonatti; inutile come una serata spesa in chiacchiere. Inutile come il gioco dei bambini. 

Inutile come un bacio. 

 

È inutile perché abbiamo imparato a considerare “utili” soltanto quelle attività che portano a un risultato quantificabile; che generano profitto. E così le azioni incommensurabili sfumano in un universo senza senso.

 

Eppure un senso ce l’hanno, perché hanno la capacità toccare le corde emotive delle persone e, di conseguenza, riescono a colorare una vita altrimenti monocroma.

 

Da questo eccesso di pragmatismo - endemico della società contemporanea - dilaga la cementificazione e diminuisce la qualità delle acque e dell’aria. Da questo eccesso di pragmatismo le temperature hanno iniziato a crescere con una rapidità anomala. Da questo eccesso di pragmatismo spuntano, come funghi perenni, oscenità architettoniche capaci di rovinare l’armonia paesaggistica.

 

Forse bisognerebbe ricominciare a indossare i panni di “conquistatori dell’inutile” per emanciparci - come suggerisce Marco Albino Ferrari  nella prefazione del noto libro di Lionel Terray (Hoepli editore) - dalla logica del vantaggio personale, dalla meschinità delle “cose terrene”.

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