Cade in bicicletta nel fiume Inn alle 04:30 del mattino dopo aver scalato in solitaria la parete Nord-Est del Pizzo Badile. La prima ascesa del Nanga Parbat di Hermann Buhl nasce da qui?
Il 27 giugno 1957 Hermann Buhl moriva sul Chogolisa. Un anniversario che invita a ricordare, attraverso due episodi in qualche modo connessi, uno dei più forti alpinisti del Novecento

di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Per comprendere la prima ascesa del Nanga Parbat è necessario volgere lo sguardo all’indietro e cambiare contesto, trasferendosi dal Karakorum alle Alpi, dal Nanga al Pizzo Badile. Hermann Buhl lo raggiunse da solo, in bicicletta.
Partì da Innsbruck il venerdì sera del 6 luglio 1952. Una lunga cavalcata solitaria attraverso valli e passi. Dopodiché, sempre in completa autonomia, scalò in 4 ore e 30 minuti la via Cassin sulla parete Nord-Est (una normale cordata, in quegli anni, difficilmente riusciva a stare sotto i 3-4 giorni). Quindi scese, riprese la bici, e si rimise in viaggio: alle 2 di notte attraversò la frontiera fra la Svizzera e l’Austria. Pedalava per inerzia, in un costante stato di dormiveglia. Il sonno leniva l'attenzione e appannava la vista.
L'equilibrio vacillò fino alle 4.30, quando cadde nel fiume Inn dove riuscì miracolosamente ad afferrare la bicicletta e il sacco che fuggivano insieme alla corrente.
Proseguì fradicio, con la bicicletta in spalla, fino a quando una corriera lo portò a casa. Le prime luci del lunedì avevano già incominciato a illuminare la valle e si recò direttamente al lavoro.
Esattamente un anno più tardi era in piedi, di notte, a circa 8000 metri sul livello del mare. Il fisico ci era cascato un'altra volta: suo malgrado si era avventurato in quell'universo algido e verticale che popolava i sogni del suo proprietario. Così adesso soffriva, battuto dal vento ghiacciato e svuotato dalla fame.
Hermann non poteva sedersi, il buio l’aveva sorpreso sulla via del ritorno e non era riuscito a trovare un diavolo di scalino su cui bivaccare. Un freddo cane fuori, un dolce tepore dentro: aveva appena scalato in solitaria (a partire dall’ultimo campo) e senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare, la nona montagna più alta della terra. Per mettere la ciliegina su quella torta di seracchi e roccia doveva “solo” superare una notte all’addiaccio, a una quota spaventosa e senza sacco da bivacco.
Lui e la montagna: come gli amori più intensi era un rapporto tormentato. Lui innamorato, troppo innamorato. Lei imprevedibile. Gli si concedeva per poi pentirsi e chiudersi in se stessa. Quella volta gli prese due dita del piede destro, ma gli donò il privilegio di essere il primo uomo ad assaporarla fino in fondo, perdendosi tra le sue pieghe più intime, dove l’aria è più leggera e il ghiaccio sfuma trasformandosi in cielo.
Per approfondire la vicenda raccontata vi consiglio di leggere È buio sul Ghiacciaio e di guardare il documentario La bicicletta e il Badile. In viaggio come Hermann Buhl realizzato con il contributo del Centro di Cinematografia e Cineteca del Cai (dal catalogo della Cineteca Cai)