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Cultura | 26 giugno | 18:06

Monte Cimone: si scava per trovare i caduti della mina del 1916. Una scelta mossa da buone intenzioni, ma che solleva anche qualche dubbio

Sul monte Cimone di Arsiero, in provincia di Vicenza, una campagna di scavo sta procedendo alla ricerca dei 150 dispersi italiani. Il progetto è stato avviato con l’intento di onorare i caduti e valorizzare il sito. Ma solleva anche qualche dubbio: ha senso turbare ancora la montagna?

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

La notizia è stata data dal «Giornale di Vicenza» lo scorso 15 maggio (si può leggere cliccando qui): una campagna di scavo, finanziata dalla Provincia di Vicenza e realizzata dagli alpini vicentini, da settimane sta lavorando per rintracciare la prima linea italiana e per riportare alla luce i resti dei circa 150 soldati sepolti a seguito dello scoppio della mina austriaca che il 23 settembre 1916 sconvolse il monte Cimone di Arsiero. All’operazione parteciperanno, si legge dall’articolo, anche studenti dell’istituto tecnico “Chilesotti” di Thiene.

 

Una posizione importante, quella del Cimone, tanto per gli italiani quanto per gli austriaci, formidabile punto di osservazione su quella pianura vicentina che gli imperiali avevano sfiorato durante la “Spedizione di primavera” (quella che sui libri è chiamata Strafexpetidion) prima di essere costretti, per la tenace resistenza italiana e per l’offensiva scatenata dal generale russo Brusilov sul fronte orientale, ad arretrare.

 

Esauritasi l’operazione austro-ungarica, nel corso dell’estate 1916 gli italiani tentarono, lungo tutto il fronte degli Altipiani, di riconquistare le posizioni perdute incalzando l’avversario: il 23 luglio gli alpini, dopo tre giorni di fuoco d’artiglieria, riuscivano a strappare il Cimone ai soldati salisburghesi del 59esimo reggimento di fanteria “Arciduca Rainer”. Questi si ritirarono sul rialzo attiguo, distante non più di 25 metri. Come sul Pasubio, anche qui le due prime linee erano vicinissime l’una all’altra.


Vista dall'osservatorio d'artiglieria sulle cime di Tonezza verso il Cimone e la valle del Riofreddo - Kuk War Press Quarter, Ufficio fotografico - Vienna

 

Maturò quindi nel comando austro-ungarico l’idea di sloggiare gli alpini dalla vetta del Cimone tramite una mina: per settimane una quarantina di zappatori scavarono nelle viscere della montagna una galleria che, come scrive Heinz Von Lichem nel suo La guerra in montagna. Il fronte dolomitico (Athesia, Bolzano 1997), a lavori ultimati risultò lunga 28 metri. Nelle tre camere di scoppio realizzate furono ammassate una tonnellata di polvere nera e gelatina esplosiva e 8,7 tonnellate di dinamite.

 

Il 23 settembre, alle 5:45 del mattino, la deflagrazione. Un enorme boato, una devastazione immane, che provocò un cratere di 50 metri di diametro e 22 di profondità.

Seguì l’attacco dei salisburghesi, che portò, oltre che alla conquista della quota, alla cattura di 15 ufficiali italiani e 477 soldati. 35 uomini furono estratti vivi dalla montagna, e tuttavia per giorni si sentirono le urla di coloro che ancora rimanevano intrappolati nelle gallerie sotterranee, tanto da spingere gli austriaci a chiedere una tregua per consentire il recupero dei feriti e la ricerca dei dispersi, operazioni rese difficili dal tiro incessante delle artiglierie italiane.

 

Il comando italiano in Val d’Astico rifiutò la proposta, ritenendo che dopo due giorni di bombardamento non potessero trovarsi ancora uomini vivi da soccorrere e che, anzi, la tregua avrebbe fornito agli imperiali la possibilità di spingersi ancora più avanti.

Da allora i corpi degli italiani periti nella deflagrazione o intrappolati sono rimasti al loro posto, così come lo furono i loro commilitoni sepolti dalla mina austriaca del 13 marzo 1918 sul Pasubio e come migliaia e migliaia di soldati di entrambi gli schieramenti rimasti fra quelle montagne che oggi non sono più un confine da difendere ma un luogo di incontro e di pace.

Per questo, pur apprezzando lo sforzo degli alpini di oggi per onorare le vittime del Primo conflitto mondiale e rendere il sito un museo storico all’aperto, qualche dubbio sorge in merito alla campagna di scavo in corso. Ha senso, per quanto i lavori siano svolti col massimo rispetto, senza mezzi meccanici e con nobilissimi fini, sconvolgere una montagna che tanto faticosamente ha cicatrizzato le ferite infertele dall’uomo oltre un secolo fa? Non sarebbe stato possibile valorizzare altrimenti il sito ricordando alle nuove generazioni che, come tutti i campi di battaglia, anche di un cimitero si tratta?

Tanto più che quello del Cimone è già stato in gran parte recuperato e trasformato in “aula didattica” a cielo aperto mentre la trincea oggetto dello scavo, che risale il ripido pendio sul versante ovest della montagna, difficilmente potrà essere accessibile al pubblico in sicurezza.

 

Il rischio di musealizzare ogni sito legato alla Grande Guerra è di trasformare i luoghi, di riscriverli sotto l’unico filtro degli eventi bellici: si ripuliscono le trincee, si piantano pali di sostegno, si aggiungono sacchi di cemento a simulare quelli di terra di un tempo; facendo questo, si rischia di dimenticare il resto, in primis quella montagna che ha continuato a vivere anche dopo gli orrori qui scatenati dall’essere umano.

 

Resta il fine di identificare e onorare i caduti: ma qual è oggi il modo migliore per rispettarne i resti? Ponendoli al suono delle fanfare in un ossario realizzato sotto quel regime che sfruttò il mito della Grande Guerra per contribuire a scatenare un secondo e più devastante conflitto? Non sarebbe meglio lasciarli dove sono? «L'ultimo pezzo alle montagne / che lo fioriscano di rose e fior» recitava un canto alpino degli anni del conflitto.

 

Nessuno pretende di avere la soluzione a portata di mano. Ma la campagna in corso, prima di diventare effettiva, avrebbe potuto essere un’occasione di riflessione su come condurre azioni di questo tipo e, più in generale, su come tramandare oggi la memoria della Grande Guerra. Chi lo sa, magari si sarebbe potuto realizzare qualcosa di diverso.

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