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Cultura | 23 aprile | 18:00

La forza della natura provoca sgomento e ammirazione, ridimensionando ogni altra cosa. Viaggio tra le opere di William Turner

In occasione dell'anniversario della nascita di William Turner, artista considerato perno insostituibile del Romanticismo pittorico, proviamo a ripercorrere le principali traiettorie stilistico-interpretative che caratterizzano le sue opere

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

William Turner (1775-1851): a volerne scrivere, ripercorrendo le linee essenziali del suo travolgente percorso espressivo, specie ora, nel giorno del suo 249° compleanno, non si sa bene da che parte cominciare. Le sollecitazioni visive ed emotive che la sua pittura provoca, infatti, si fondono tra loro e, senza mutarne la sostanza interiore, mettono in risalto l’inafferrabilità di un artista considerato perno insostituibile del Romanticismo pittorico. Con lui l’impossibilità di restituire attraverso le parole ciò che stiamo guardando pare essere una precondizione essenziale e obbligatoria, così da rivivere, non solo in qualità di osservatori, il medesimo senso di smarrimento nei confronti di una natura indicata come fonte prima di ogni pensiero. Una natura scandita da ritmi rassicuranti, ma che sa essere intimorente e distruttiva, intima e maestosa, dolce e aggressiva. Turner non solo ci vuole con lui: nei suoi dipinti pare volerci trascinare dentro.  Non a caso, quando nel 1812 presentò la grande e impressionante tela intitolata “Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi”, volle collocarla in una posizione insolitamente bassa, proprio per dar modo al visitatore di varcarne la soglia.

Un soggetto storico, lontano dalle onde dei suoi mari e in parte vincolante. Anche in questo caso, però, poco rimane del racconto e del tutto assente è l’enfasi celebrativa dei pittori neoclassici di quegli stessi anni. Annibale non compare, mentre piccole e disperate si intravvedono le sagome di alcuni soldati, chiamate a punteggiare orizzontalmente nel basso la grande tela (145x246), realizzata nel 1812 e ora visibile alle pareti della Tate Gallery di Londra. Guardando con attenzione, risalito in superficie non si sa da dove, vi è anche, sempre in piccolo e steso su un fianco, uno dei 37 elefanti della celebre spedizione. Ma il vero protagonista, chiamato a restituire in modo compiuto l’intensità drammatica dell’evento, è il cielo infuriato: collocato in alto, al tondo del sole manca la lucentezza, alla neve manca il biancore. La forza della natura, dunque, ancora una volta provoca sgomento e ammirazione, ridimensionando ogni altra cosa.    

 

Anche in assenza del dramma, Turner, del paesaggio, voleva cogliere le prospettive meno accessibili, in modo da stabilire col soggetto un dialogo tanto privato, quanto, successivamente, condivisibile. Ciò accadeva soprattutto durante i suoi numerosi viaggi, fermandosi incantato di fronte a un crepaccio o salendo di notte sul tetto dell’Hotel Europa a Venezia, così da cogliere dall’alto, tenendo nel cuore Canaletto, la città rischiarata dalla luna. In Italia venne tre volte, attratto dal fascino di un paesaggio fatto anche di storia e segnato dall’azione corrosiva del tempo.

Per comprenderne la straordinaria ampiezza del tragitto artistico, immaginiamoci William Turner con le braccia allargate: lo vedremo con una mano, se non proprio sfiorare, avvicinarsi molto a Canaletto (morto solo sette anni prima della sua nascita), artista ch’egli ebbe modo di guardare attentamente nei suoi esordi anche grazie ai numerosi dipinti realizzati in terra inglese durante i quasi dieci anni in cui il pittore veneziano, lasciata la laguna, vi soggiornò, a partire dal 1746; mentre, con l’altra mano, egli sembra arrivare quasi a contatto con la pittura impressionista. Anzi, a guardare i suoi ultimi dipinti, ne scavalca addirittura i raggiungimenti espressivi, così da proseguire per suo conto la strada aperta dall’anziano Monet, spingendosi avanti, in direzione dell’arte Informale, con intuizioni e azzardi stilistici ancor più coraggiosi. Lo stesso Monet, scosso, faticò a coglierne la misura: “In passato ho amato molto Turner, oggi lo amo molto meno. Perché? Non ha disegnato abbastanza il colore e ne ha messo troppo. L’ho studiato bene”.

 

Infatti, se nell’opera del pittore francese il soggetto, in ogni sua forma - comprese le acquatiche e fragili ninfee - si ricompatta visivamente dopo aver subito l’azione sfaldante della luce, in Turner, quella medesima luce, invade la superficie della tela come fosse uscita da uno sfiato improvviso. Una sorta di valvola di sicurezza. La luce è forse uguale per intensità, ma qui pare diversa, per provenienza e “consistenza”. Di certo, non piovuta dall’alto, ma fuoriuscita, appunto, da un serbatoio interiore, che più non la poteva contenere. Quello di Turner, insomma, è una sorta di straripamento emotivo. Una “esondazione” luminosa e bituminosa, capace di travolgere al suo passaggio ogni riferimento visivo, così da trasformare, strada facendo, la materia in soggetto. Ecco perché in Turner la luce si fa materia e, non di meno, la materia si fa luce.

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