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Cultura | 05 agosto | 18:00

In un "mondo in bilico tra salvezza e rovina" abbiamo bisogno di storie a cui aggrapparci. Tra queste la vita di Neri Pozza, non solo editore

Nato a Vicenza il 5 agosto 1912, Neri Pozza continua a essere un importante riferimento culturale. Ripercorrere alcune tappe della sua biografia ci aiuta a orientarci nella complessità del presente

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

In una foto in bianco e nero ho rivisto qualche giorno fa il volto di Neri Pozza (1912-1988) riprodotto nel retro della copertina del catalogo delle sue sculture, curato da Angelo Colla nel 1990. Un catalogo che ci piacerebbe vedere ripubblicato con Neri Pozza vivo, non solo per inventare una soluzione grafica differente, così da inserire questa bellissima fotografia senza tagli, nella sua versione originale, ma anche per chiedere direttamente a lui di chiarire alcuni passaggi essenziali della sua attività di modellatore. Sappiamo che la confidenza con la materia gli arrivò quand’era ancora in famiglia, seguendo l’esempio del padre Ugo (1882-1945), a sua volta scultore. Infatti, nelle prove d’esordio se ne rivede l’incedere e la compostezza stilistica. Le cose poi cambieranno nel momento in cui Neri Pozza, mettendosi in gioco, allargherà considerevolmente i propri orizzonti visivi incontrando due tra le figure centrali della scultura italiana del Novecento, Artuto Martini e Marino Marini: “Nel 1933-40 guardavo le sculture di Martini con ammirazione; guardavo a Marino; e avevo per le opere di questo artista slanci e perplessità continue. Nel 1983 quando vidi la rassegna delle sue opere (donate al Comune di Firenze ed esposte a Palazzo Grassi a Venezia), intuii invece che anch’io sarei andato per quella strada, a testimoniare per immagini dei disastri di un mondo in bilico tra salvezza e rovina”.

 

Li giudica per com’erano quegli anni, offrendo, prima che ad altri a se stesso, una visione lucida e consapevole del proprio tempo. Mentre affonda le dita nella creta non si isola dal mondo, ma dialoga con essa. Considerandosi un privilegiato nella scelta di essere in quel momento solo scultore, se ne rammarica, quasi fosse una sottile forma di egoismo. A un artista si chiede di offrire una sintesi poetica di un sentire comune, riuscendo ad anticipare, in qualche caso, umori che verranno. Infatti, dal suo studio, tra i pieni e i vuoti di una materia che docilmente si lascia plasmare, non escono proclami, ma figure. Figure dalla posa composta, con l’animo scavato dalla malinconia. Sfogliando in velocità la parte del catalogo con le illustrazioni, colpisce non poco la mestizia presente nei volti che ritrae: ogni sua immagine è circondata dal silenzio. Un silenzio percepibile e quasi materico. Questo accade sia nei ritratti, accumunati da uno sguardo quasi sempre vuoto e assente, sia quando inserisce le figure all’interno di un breve racconto (stabilendo un filo di congiunzione con l’arte del Tre-Quattrocento e, in modo ancora più diretto, con i “Teatrini” di Arturo Martini). Una disposizione interiore, questa, che si manifesta anche quando affronta temi sacri. Chi l’ha conosciuto può confermare che la tanto temuta e spigolosa irruenza del suo carattere, si placa nell’argilla.

 

A distanza di tempo, è forte il rammarico per la decisione che Neri Pozza prese di abbandonare l’amata creta per dedicarsi unicamente all’attività di editore. Scelta avvenuta, come si può leggere tra le note del curatore del catalogo, nel 1951, dopo aver collocato la statua, alta oltre due metri, dedicata a San Francesco, a Lendinara, in provincia di Rovigo, grazie all’intercessione di Giuseppe Marchiori. Quando Angelo Colla gli chiese una spiegazione, pare abbia risposto così: “Non saprei dirlo. Me lo sono domandato tante volte. Ero nel vigore degli anni. Forse sono stato io a portare fuori strada i miei mecenati e amici. Avevo cambiato improvvisamente mestiere: mi ero messo a fare l’editore. Che cosa si domanda ad un editore. Un statua?”. In sostanza, seguendo il filo del suo pensiero, dedicarsi all’editoria significava dare un contributo maggiore per ricompattare la “forma” di un vivere civile, in un paese “che aveva bisogno di idee”, dopo gli anni terribili della guerra.

Mentre dice, inevitabilmente, si contraddice, ed è comprensibile: egli, infatti, non fu mai solo editore. Queste parole, accompagnano un senso di rimorso, a suo giudizio comunque minore di quello che si sarebbe sviluppato se avesse fatto una scelta diversa: “Del resto non si possono in anni come i nostri fare più mestieri in una sola vita. Bisogna avere rispetto del lavoro. Ho lavorato con serietà, ma chissà cosa sarei riuscito a fare se avessi seguito una sola professione, mi pareva che il giorno fosse vuoto, che restassero altre margini per fare altre cose”. Qui, tutto si annoda ulteriormente e, in poche righe, afferma: “Non si possono fare più mestieri in anni come i nostri” e poi aggiunge: “Mi pareva che il giorno fosse vuoto, e che restassero altri margini per fare altre cose”. Difatti, molte altre ne farà. Verrà apprezzato come letterato, grazie a volumi quali: Processo per eresia (1970), premio selezione Campiello, Commedia familiare (1975), Tiziano (1976), Le storie veneziane (1977), Una città per la vita (1979), perfino una storia con La vita di Sant’Antonio da Padova (1984). E qui vanno almeno ricordati gli oltre quarant’anni di attività grafica, con la realizzazione decine di lastre, incise con un reticolo fitto di segni, incrociati e paralleli, morandianamente mediati tenendo vivo il dialogo con Leonardo Castellani da cui poi si allontanerà. Al proprio linguaggio fornirà una sintesi espressiva che lo condurrà dalle parti di Santomaso e, forse, accanto alla raffinata espressività di Arturo Bonfanti e Ben Nicholson.

 

Per tornare alla foto di Neri Pozza - che motiva questo scritto, assieme al desiderio di ricordarlo oggi in coincidenza con la sua nascita, avvenuta a Vicenza il 5 agosto 1912 - essa compare dunque ai miei occhi nel catalogo delle sue sculture. Catalogo prezioso non fosse altro che per il testo introduttivo di Renzo Zorzi, intellettuale dai grandi meriti, tra cui essere stato segretario generale della Fondazione Cini di Venezia dal 1988 al 2001 e, dal 1990, Presidente del Centro d’Arte Palazzo Te di Mantova. Una biografia, la sua, che parte, da lontano: dopo aver frequentato con assiduità Adriano Olivetti, nel 1965 Renzo Zorzi entra con un ruolo importante nelle attività culturali della società di Ivrea. Ma tra i suoi grandi meriti, ancor prima, vi è quello di aver proposto la pubblicazione di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, nel 1947, appena chiamato a collaborare con la casa editrice torinese De Silva. Libro in precedenza rifiutato da parecchie case editrici, tra queste, la stessa Einaudi.

 

Rivedo il volto di Neri Pozza scrittore, poeta, incisore, scultore e, dai primi anni del dopoguerra, di importante editore italiano, consolidato da autori quali: Gadda, Sbarbaro, Montale, Luzi, Cardarelli, Bontempelli, i vicentini Goffredo Parise e Fernando Bandini, per citarne solo alcuni. Ogni volta che leggo qualcosa di suo o lo rivedo in qualche immagine, mi capita di risentirne la voce: il timbro inconfondibile, metallico e, per alcuni, intimorente. Le vocali larghe, tipicamente venete.

 

Grazie a una di quelle coincidenze difficili da razionalizzare, ho rivisto proprio ieri quella stessa foto, nella sua versione originale, in un articolo pubblicato nel 2016 dal Sole24Ore: lo si vede concentrato mentre aggiusta, nell’argilla ancora umida, l’attaccatura della treccia del ritratto di Almerina. Le mani purtroppo sono coperte dall’opera, ma di sicuro dovevano assomigliare al volto. Ne sono anzi certo perché le ricordo. L’articolo metteva in parallelo l’esperienza editoriale di Neri Pozza con quella della Longanesi, il cui nome arriva da Leo Longanesi, figura anticonformista ma, per ragioni sostanziali, assai diversa da Neri Pozza.

 

 

In questa foto si vede anche Almerina, non proprio in posa ma ferma davanti a lui: dai lineamenti bellissimi, era la compagna di Dino Buzzati, di trentacinque anni più giovane. Buzzati e Pozza, grandi amici, condividevano persino la stessa casa durante i soggiorni estivi a Cortina: uno occupava la mansarda, l’altro il piano interrato.

 

Pare siano stati proprio Neri Pozza e la compagna Lea Quaretti a spingere la coppia verso le nozze, avvenute a Milano, l’8 dicembre 1966, ipotesi confermata anche dal fatto che furono chiamati come testimoni.

 

Da qui, il mio irrealizzabile desiderio di poter ripubblicare il volume delle sue sculture, con Neri Pozza vivo (cosa che peraltro avvenne con quello delle incisioni, edito nel 1987): se Almerina Antoniazzi e Dino Buzzati si sposarono nel 1966, sei anni dopo il loro primo incontro, avvenuto quindi nel 1960, com’è possibile che egli abbia smesso di modellare nel 1951? Raggiunto al telefono, la risposta mi giunge da Angelo Colla: “In realtà smise come scultore professionista, praticandola ancora saltuariamente” anche quando decise di fondere nel bronzo le sculture eseguite in anni lontani, ritoccandone la cera, in modo tale da “salvarle da una possibile strage”, come egli stesso dichiarò.

 

La sola Almerina o anche altre immagini presero forma? In quello stesso 1990 a Treviso, da un amico antiquario di nome Giuseppe Vanzella, vidi, nascosta da libri di Comisso, da cataloghi d’arte, da cornici vuote e paralumi inclinati, un testa in creta, opaca e mai cotta in forno, dallo sguardo un po’ funereo ma affascinante. Umanizzata da un suo indesiderato difetto: una forte scheggiatura sul naso. La rivedo ogni giorno. Acquistata con pochi soldi o, forse, ottenuta grazie a un cambio, da allora è qui accanto a me, anche adesso, mentre scrivo. Quando la pulisco, lo straccio porta con sé un po’ della sua polvere. Chissà come mai è uscita senza essere cotta dal suo studio, chissà di chi è quel volto, in catalogo non compare. Nel retro c’è la sua firma: Neri Pozza 1947.

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