"Il libro che mi ha fatto conoscere davvero l'Appennino". Risfogliarlo dopo decenni significa interrogarsi sulla narrazione della montagna oggi
Un libro uscito più di trent'anni fa dedicato all'Appennino ligure-emiliano torna alla luce, così come i ricordi rispetto alla sua appassionata lettura da ragazzino. Un'occasione per riflettere sul racconto odierno delle Terre alte, senza perdere la fiducia per il futuro

Sarà capitato anche a voi, almeno una volta nella vita, di incrociare distrattamente con lo sguardo i libri letti e amati nell’infanzia o nell’adolescenza; libri che riposavano da decenni, indisturbati, in un angolo polveroso della libreria. E sarà capitato anche a voi di scoprirvi immobili, in preda ad un brivido, nel percepire tra quei fogli ingialliti una vocina sottile: “Torna ad aprirmi, sfogliami ancora…”
A me è capitato di recente. Ho sentito quella voce provenire da un libro in particolare, un volume alto, dalla costola blu, con un’evidente scritta bianca in caratteri maiuscoli: “FABRIZIO CAPECCHI – FRA TREBBIA AVETO E TARO – EDIZIONI CROMA”.
Ho dato corda a quella strana allucinazione e ho liberato il libro dalla stretta di decine di altri volumi compressi nell’ormai poco spazio disponibile. L’ho riaperto e mi è parso quasi di sentirlo esalare un respiro profondo, di sollievo. Risfogliarlo non è stato solo un tuffo nei ricordi, ma anche un’occasione per nuove riflessioni.

È uscito nel 1993 quel libro, quando io avevo dieci anni, e da allora mi ha accompagnato spesso nei momenti di noia (la mia generazione, per poco, ha potuto provare la dolceamara esperienza dell’annoiarsi). All’inizio ero unicamente attratto delle affascinanti fotografie raccolte nel volume, che Autore ed editore avevano selezionato con cura. Le valli dell’Appennino, quelle valli che sapevo avere a poca distanza da casa, erano ritratte in tutte le stagioni, all’alba e al tramonto, di notte e di giorno, con l’uso di grandangolo e teleobiettivo, alternando colore e bianco e nero. I miei occhi curiosi potevano spaziare tra rocce, foreste, alberi, pascoli e laghi, ma anche tra architetture e manufatti, tra chiese, ponti, castelli e paesi. Poi, mese dopo mese, anno dopo anno, alla meravigliata osservazione delle immagini si è unita la lettura delle parti scritte: la storia di quelle montagne, l’accumulo di vicende naturali e umane sovrapposte e intersecate nel corso dei secoli.


Il primo capitolo del libro si intitola: “Una foresta nella storia” e, col senno di poi, penso che la mia futura scelta rivolta allo studio dei boschi sia derivata, almeno in parte, anche dalle scoperte emerse in quelle pagine. Sapere che gli abeti bianchi della Foresta del Monte Penna erano stati trasformati in pennoni per le navi della flotta genovese mi colpiva profondamente, così come mi faceva amaramente riflettere il fatto che, a seguito del sovrasfruttamento per le esigenze di ferriere, fornaci, vetrerie e industrie, i boschi della zona fossero stati fortemente degradati. Ma li conoscevo bene quei boschi, ci andavo a camminare e per funghi con i miei genitori, e non mi sembravano poi messi così male. Dal libro ho scoperto infatti che erano stati ripristinati dopo la seconda guerra mondiale con ampi rimboschimenti e che ancora vi si effettuavano interventi selvicolturali, ma con criteri più moderni e rispettosi. Alberi ed esseri umani, insomma, avevano vissuto su quei rilievi fianco a fianco, in un rapporto fatto di alti e bassi, di errori e di riparazione agli stessi: una relazione complessa che, lo sentivo, mi attirava come una potente calamita.

Forse no, non del tutto almeno. I prodotti di comunicazione, cartacei o digitali che siano, sono lo specchio della sensibilità dell’autore o dell’autrice che li produce ma anche, indubbiamente, del tempo in cui sono concepiti, degli strumenti a disposizione e delle dinamiche di mercato che premiano certe narrazioni rispetto ad altre. E oggi ad essere premiata, purtroppo, è spesso una modalità di assimilazione delle informazioni ben diversa da quella a cui mi ero così tanto affezionato, che sapeva unire bellezza e approfondimento senza cadere in descrizioni banali, posizioni manichee o in vaghe retoriche oggi tanto di moda. Nel pensarlo, però, mi sono sentito vecchio, incapace di guardare al futuro con ottimismo, e me ne sono vergognato.
Ho così rimesso il libro al suo posto con addosso un po’ di inquietudine. Come viene raccontato l’Appennino, la montagna, oggi? È possibile, attraverso i nuovi linguaggi e i nuovi strumenti di comunicazione ed educazione, restituire al racconto delle Terre alte quella preziosa complessità che rischia di scomparire? La dimensione digitale può essere autosufficiente oppure è necessario recuperare, magari proprio grazie alla sua spinta, anche uno “spazio analogico”, ripensato e rinnovato?
Sono domande a cui non so dare risposta. Ma voltando le spalle alla libreria ho sognato un ragazzino che ancora deve nascere e che tra trenta o cinquant’anni, con un libro, uno smartphone o chissà cosa tra le mani, proverà analoghe emozioni rispetto alle mie. Ho sognato che potrà nutrirsi di quelle stesse straordinarie scoperte e che, sentendosi così tanto coinvolto da quei luoghi e da quella storia millenaria, deciderà di condizionare le sue scelte future a favore della montagna.
Dobbiamo iniziare, da subito, a lavorare per quelli come lui.

Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.