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Cultura | 14 agosto | 12:00

I rilievi non sono un semplice sfondo del dipinto e della nostra esistenza. L'arte di Tullio Garbari si fa metafora di un rapporto con le montagne da ripensare

L'arte del trentino Tullio Garbari (nato a Pergine Valsugana il 14 agosto 1892) manifesta un candore e una naturalezza poetica che incanta e che sarebbe riduttivo limitarla unicamente al vasto territorio dell’arte popolare

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Nel 1919 - come abbiamo ricordato qualche giorno fa, in coincidenza con i 135 anni dalla nascita - Ubaldo Oppi è per la seconda volta a Parigi, una città che in quegli anni poteva offrire a un pittore più di quanto egli potesse chiedere. Non tutti, infatti, traevano vantaggio da quel viaggio: solo coloro che riuscivano ad arricchire le proprie caratteristiche espressive; non certo chi, per prima cosa, pensava di nasconderle, sentendosi in quel contesto inadeguato e provinciale. Oppi si salvò. Aiutato dal carattere, si mantenne alla giusta distanza dal bollore ancora eruttante delle avanguardie e quando neppure questo bastava, si rintanava dentro al Louvre, rimanendo per ore ad ammirare soprattutto i capolavori esposti nelle sale dedicate alla pittura italiana. D’altronde, la sua tavolozza aveva già iniziato a maturare il proposito di trovare un punto di congiunzione con la grande tradizione figurativa del nostro paese.

 

Al rientro dalla capitale francese, si presenta un’occasione espositiva importante per lui: viene inserito in una mostra collettiva a Trento, allestita a Palazzo Galassi, dove espongono, tra gli altri, Luigi Zigiotti Zanini, pittore e architetto e Tullio Garbari, la cui genuina vocazione Oppi aveva già avuto modo di osservare, incontrandone le opere nel 1910 a Venezia nella fucina artistica di Ca’ Pesaro, magistralmente diretta da Nino Barbantini. 

A Trento, con due trentini, Oppi (da alcuni considerato “mezzo trentino”) rimane subito affascinato soprattutto da Garbari, che in quel momento dimostra di aver superato i riferimenti alla Secessione e i successivi influssi “bretoni”, giunti nella sua tavolozza grazie a Gino Rossi e a Umberto Moggioli, come lui trentino, ma sei anni più vecchio. L’andatura di Garbari - nato a Pergine Valsugana 132 anni fa, il 14 agosto 1892 - manifesta un candore e una naturalezza poetica che incanta e che sarebbe riduttivo limitarla unicamente al vasto territorio dell’arte popolare. Egli elabora e protegge con grande convinzione la propria indole stilistica: osserva tutto (sedicenne, nel 1910 è già a Venezia per frequentare l’Accademia di Belle Arti), ma trattiene solo ciò che potrebbe irrobustire il suo percorso. Affascinato dallo spiritualismo dell’arte trecentesca, cerca di utilizzare linee altrettanto nette ed essenziali per delimitare i contorni, così da scandire geometricamente lo spazio. Al contempo però, riflette su artisti quali William Blake o Georges Rouault. Inoltre vi ritroviamo le sognanti atmosfere del Doganiere Rousseau e i prosciugamenti formali della fase “antigraziosa” di Carlo Carrà. Mentre, nei rapporti cromatici una via difficile da individuare porta a Gino Severini, artista che, come Oppi, ma in anni diversi, avrà modo di frequentare a Parigi, quando nel marzo del 1931 vi si recherà con in cuore la speranza di incontrare Maritain, il cui pensiero filosofico aveva illuminato interiormente il suo percorso, offrendogli la sponda immateriale che andava cercando. Purtroppo l’incontro non avverrà, sia perché Maritain in quei mesi era a Meudon e sia, soprattutto, perché Garbari morirà improvvisamente per un arresto cardiaco l’8 ottobre, lontano dalla sua terra, a soli trentanove anni.

Era in cerca di conferme, ma già prima di Parigi, l’artista trentino, aveva iniziato a produrre un linguaggio molto personale e un pensiero critico teso a valorizzare, attraverso l’arte, una convinta religiosità, fatta di melodiche dissonanze, più che di assolute e irraggiungibili perfezioni. Il severo Oppi, che al “ben fatto” dava grande importanza, ugualmente lo stimerà molto, cogliendo in quei quadri anche le qualità interiori di Garbari. Tanto è vero che, sempre con Zanini, nel 1922 esporranno tutti e tre nuovamente assieme a Milano, alla Bottega di Poesia.

“La corte delle colombe”, del 1927, è considerata una tra le sue opere più belle. Venne inserita, alla fine del 2019, nella mostra intitolata “Ritratto di donna”, allestita nel salone della Basilica Palladiana di Vicenza, curata da Stefania Portinari e incentrata sulla figura di Ubaldo Oppi. Una perfetta coincidenza di date non ha probabilmente permesso alla medesima tela di essere presente anche all’esposizione a Palazzo delle Albere a Trento - “Tullio Garbari - Primitivismo e modernità” -  fortemente voluta da Vittorio Sgarbi. Nel quadro, due donne si tengono per mano ai margini del paese, con compostezza nella loro malinconia. Alte nel cielo, due colombe si inseguono. Parrebbe domenica. In lontananza un uomo attende, vestito in modo elegante. Accanto a lui e lontana dal gregge, una pecora allunga il collo confidando in una carezza. Sullo sfondo una serie di colline rotondeggianti ancora ricordano Gino Rossi, però non siamo più in Bretagna, qualcosa porta in Toscana. Qualcos’altro porta verso di noi, “mezzi trentini”: un sentimento di infinita tenerezza. I rilievi sono spesso presenti nelle sue immagini: colline e montagne si delineano sullo sfondo, non incorniciano la scena ma la completano, aiutando a sollevare lo sguardo, così da incontrare anche ciò che la sorte non gli ha permesso di dipingere.

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