"Fiore Mio", recensione del film di Paolo Cognetti. Uno sguardo verso l'alto, ma che verrà apprezzato soprattutto in città
Racconta una sete profonda, appagata dal contatto con la natura e da un ritmo di vita più lento. Nelle sale fino a domani (mercoledì 27 novembre)

di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Fiore Mio, l’ultimo (e il primo) docufilm di Paolo Cognetti è un documentario che piacerà a chi vive in città: baite di legno, alte quote, larici e abeti, panorami mozzafiato, natura incontaminata e fauna selvatica a portata di binocolo, soprattutto stambecchi, che sembrano perpetuare lo stereotipo alpino per eccellenza, quello che compare nel primo stemma del Club Alpino di Torino nel 1863, agli albori dell’epopea ascensionale nazionale. Una montagna vista mille volte, e attraversata dal protagonista (sempre in primo piano nelle riprese) in una sola direzione, verso le vette, con lo sguardo verso l'alto, le giogaie innevate, l’imponente e fragile ghiacciaio del Rosa... excelsior!
Ma a guardarlo bene, oltre la fotografia eccezionale di Ruben Impens, Fiore Mio è soprattutto un documentario sulla sete. Paolo Cognetti si accorge che non c'è più acqua nella sua baita, e parte alla sua ricerca, vuole capire dove trovarla. Risale la montagna con il suo cane, si dirige verso il ghiacciaio del Rosa, che in antico longobardo significa appunto ghiaccio. In questa sua risalita, a più riprese riempie la borraccia da sorgenti, ruscelli e torrenti d'alta quota, e la riporta in una scodella di legno in casa sua, nel tentativo di colmare un'assenza. In questo suo insistito peregrinare a favore di camera, Cognetti racconta però soprattutto un'altra sete: attraverso l’incontro e il dialogo con personaggi che ruotano attorno a rifugi d’alta quota (guide alpine, giovani rifugiste, un’insegnante di yoga vegana, un falegname, uno sherpa nepalese trapiantato sulle Alpi), il film racconta in realtà una siccità più profonda: è la ricerca di senso e pace interiore, ritrovata nel contatto con la natura e in un ritmo di vita più lento, la vera sete da appagare. La montagna povera d'acqua si trasforma allora in una metafora e in un potente serbatoio che placa un'altra sete, prodotta dal vuoto di senso di un mondo a quote più basse, troppo basse.
Alla fine, l'acqua si trova, ancora per poco forse sul ghiacciaio, che un giorno scomparirà, ma soprattutto nei volti sereni e appagati di chi ha incontrato la propria sorgente personale e un proprio equilibrio. Nella risposta dello sherpa italo-nepalese alla domanda finale "cosa desideri per il futuro?" c’è la chiave di volta del film, che si riflette nell’immagine finale di un rapace sospeso, immobile, in miracoloso equilibrio tra correnti ascensionali, in cui si nasconde il messaggio profondamente buddista del film. Posizione precaria e validissima, sostenuta da quelle correnti che da almeno due secoli spingono la popolazione urbana più irrequieta a risalire, rigorosamente oltre il limite dell’insediamento permanente, dove "splendono gli astri metallici e bianchi" della canzone finale, alla ricerca di un assoluto che plachi la propria sete interiore: sospeso tra Milano ed Estoul, senza abbandonare né l’una né l’altra, il protagonista delle Otto montagne dichiara la propria appartenenza più alle alte quote del padre che a quelle intermedie della madre. Due montagne diverse, unite dal percorso dell’acqua.