“Ponti sospesi e aperitivi in rifugio: così si cerca la città in montagna”. Turismo, terre alte e crisi climatica, l'analisi: “Un modello non sostenibile”
Il professor Umberto Martini, ordinario al dipartimento di Economia e Management dell'Università di Trento, si occupa da anni di turismo in quota e, nell'epoca del cambiamento climatico, ha approfondito con l'AltraMontagna una serie di temi legati agli effetti del cambiamento climatico nell'ambito dell'accoglienza: ecco l'intervista

di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Dal carico antropico sempre maggiore che le terre alte si trovano ad affrontare fino agli squilibri, nell'ambito ambientale e turistico, portati dalla crisi climatica. Sono molti i temi che il professor Umberto Martini, ordinario al dipartimento di Economia e Management dell'Università di Trento e da anni esperto di gestione del turismo in quota, ha affrontato con l'AltraMontagna nel tracciare un quadro di come il settore sia cambiato negli ultimi anni (ed in quale direzione si stia muovendo). Un dato, in definitiva, è certo: l'approccio alla montagna sta cambiando e le terre alte si trovano inevitabilmente ad essere 'banalizzate' rispetto al passato, in un contesto turistico spesso non sostenibile (in particolare in epoca di crisi climatica). Ecco le sue parole
La situazione del turismo in montagna si è modificata nel tempo, seguendo anche l'andamento di un clima a sua volta in profondo mutamento. A livello storico come si è strutturato il comparto nel corso degli anni?
Rimanendo alle 'nostre' Alpi, possiamo dire che ormai da una sessantina d'anni la montagna è diventata una delle mete turistiche più importanti. Il binomio Alpi-turismo, in particolare, si è consolidato a partire dagli anni '60 e, viste le caratteristiche del luogo di riferimento, l'intero settore si è concentrato ovviamente sulle attività all'aria aperta. Questa è stata una prima, ed imprescindibile, condizione del turismo in montagna: sono richieste adeguate condizioni meteorologiche. In generale fin dagli anni del boom economico sono sempre esistite due stagioni turistiche in quota: quella invernale, legata inevitabilmente allo sci, e quella estiva. Nonostante da decenni si guardi alle terre alte in riferimento in particolare al carosello bianco, da un punto di vista storico è proprio in estate che è invece nata la prima forma di turismo di montagna, legata alle dinamiche alpinistiche e termali. Parliamo di un contesto che a lungo è stato periodico e ordinato, prima delle conseguenze del cambiamento climatico.
In che senso?
Spesso, parlando di turismo, si fa riferimento agli effetti del riscaldamento globale guardando solo alla stagione invernale, alla neve che 'sale' sempre più in quota e che tende ad arrivare sempre più tardi. Il global warming sta però modificando la fruizione turistica della montagna nel corso di tutto l'anno. Tradizionalmente siamo stati abituati a inverni freddi e nevosi, con precipitazioni sufficienti a garantire l'innevamento grosso modo tra la metà di novembre e l'inizio della primavera. Fino agli anni '80, per dire, si sciava diffusamente anche attorno a quote più basse, sugli 800 metri, senza la necessità di innevamento artificiale. In primavera poi la montagna andava 'a riposo' turistico per riaprire in estate, stagione nella quale ci si aspettavano condizioni, a partire da giugno, calde e generalmente asciutte per dedicarsi ad escursionismo, alpinismo, villeggiatura. Con l'arrivo dell'autunno poi si ricominciava il 'giro': tutto il sistema turistico, attività, servizi, imprese e via dicendo, si era abituato a questo tipo di successione “sinusoidale” nel tempo. Negli ultimi 20 anni circa però, con il riscaldamento globale è stato rimesso tutto in discussione. Come anticipato, è evidentissimo in inverno: nevica sempre più alto, meno rispetto ad un tempo e sempre più tardi. E anche quando le precipitazioni nevose arrivano, spesso nel giro di qualche giorno le alte temperature portano ad una veloce fusione. Negli ultimi anni abbiamo invece spesso visto primavere più simili a delle estati, con i sentieri d'alta quota già percorribili a fine maggio. Le estati poi, tremendamente calde e siccitose, portano un carico antropico sempre maggiore (in particolar modo dal periodo Covid, vero e proprio spartiacque in questo senso), con un incremento notevole dell'afflusso di turisti (parecchi dei quali in fuga dalle temperature in valle o in pianura). A tutto questo si accompagnano fenomeni meteorologici estremamente intensi, causati dalla sempre maggiore energia in gioco viste le temperature: guardando all'aumento della frequentazione delle terre alte, va sottolineato che si tratta di situazioni potenzialmente più rischiose proprio per chi si avvicina alla montagna senza la dovuta esperienza e preparazione. L'autunno infine si è trasformato a sua volta in una sorta di prolungamento della stagione estiva, con condizioni paradossalmente spesso ideali per le uscite in quota. Dobbiamo considerare quindi il cambiamento climatico come un fattore che ci spinge a modificare l'organizzazione dell'offerta turistica.
Ad oggi questo cambiamento è in atto?
Certo, pensiamo alle date di apertura e chiusura dei rifugi, all'attività estiva degli impianti e all'attività delle strutture ricettive, che rimangono aperte sempre più tardi in autunno e aprono sempre prima in primavera. Dopo decenni di stabilità climatica siamo davanti ad un'esigenza inevitabile e ineludibile di adattamento a questo cambiamento così repentino. La questione da affrontare oggi è però culturale: il numero di persone che si recano in montagna continua ad aumentare, ma si riduce la preparazione tecnica, e culturale, media all'ambiente montano stesso.
Si tratta di un dato che ha già citato in precedenza, parlando del carico antropico sempre maggiore per le terre alte nella bella stagione, possiamo immaginare tra le cause un'attenzione in crescita per quelle attrazioni, per così dire, 'instagrammabili' che spesso nascono in montagna? Penso ad opere di forte richiamo 'social' o a strutture come i ponti sospesi.
Assolutamente. Senza entrare nel merito, il dato di fatto è che esiste un fenomeno di banalizzazione della montagna. Fino a una ventina d'anni fa, la montagna era un luogo che richiamava prevalentemente gli appassionati. La montagna aveva in poche parole una sorta di auto-selezione che vedeva nei rifugi, nei sentieri, nel contesto ambientale le 'attrazioni'. Oggi invece si stanno portando in montagna masse sempre crescenti di persone che salgono in quota dopo aver visto un video su Instagram o su Youtube, che hanno altri gusti, aspettative e abitudini che, spesso, vengono assecondate dagli operatori in loco vedendo un'opportunità di business. L'economia della montagna si muove così da diversi anni e, di fatto, le terre alte si sono banalizzate, aprendosi però a fruitori sempre più impreparati, come detto, da un punto di vista tecnico e culturale alla montagna. Così si cerca la città in quota. Così il ponte sospeso diventa un 'luna park', il rifugio diventa la struttura ricettiva dove trovare un menù ricercato, una stanza singola, l'aperitivo. In passato si passava la notte in rifugio per partire all'alba e raggiungere una cima, un ghiacciaio: oggi la struttura è diventata un punto di arrivo, non di partenza. È un post su Instagram, una cena speciale, una foto-ricordo in un mondo che deve ricordare l'idillio à la Heidi.
Parliamo di un sistema sostenibile in ottica futura?
Certo che no. La montagna è un ambiente estremamente fragile, con un sacco di equilibri naturali, ambientali, geologici. Dobbiamo evitare che la montagna diventi un luna park e una forma di sensibilità sta cominciando a trasparire, almeno nella misura in cui si riconosce la necessità di una corretta comunicazione per evitare comportamenti del genere. C'è una consapevolezza circa l'insostenibilità per la montagna di superare certi livelli, circa l'impossibilità per le terre alte di trasformarsi in un contesto come quello costiero, proprio per la loro conformazione. La montagna è un ambiente fragile e inadatto ad accogliere masse disordinate e impreparate di frequentatori, che spesso vivono il contesto montano alla ricerca dell'adrenalina. Che si tratti di 'sfidare' il ponte sospeso o una cresta per arrivare al punto panoramico, si tratta di attività rischiose che vanno a compromettere l'idea di sostenibilità relativa al carico antropico in quota.
A sinistra nella foto di copertina un'immagine risalente all'estate 2020 alle Cascate di Riva di Tures, in Valle Aurina, a destra un'immagine di poche settimane fa dopo l'inaugurazione del nuovo ponte sospeso sopra Mezzocorona