La fine dello sci, l’accanimento dell’industria turistica e la “sindrome di Stoccolma” di numerose località montane

Tutti i report climatici, così come le analisi socioeconomiche sul turismo montano, proclamano la fine ormai prossima dello sci nella gran parte delle stazioni attive. Ma allora come è possibile che molte comunità residenti in quelle stazioni, spesso prive dei servizi di base, si dicano favorevoli agli stanziamenti di denaro pubblico a favore di impianti sciistici destinati ad un fallimento pressoché certo?

di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
«La stagione degli sport invernali, così come la conosciamo e continuiamo a immaginarla, non ha futuro. Bisogna prenderne atto. E agire di conseguenza. Già adesso, il periodo per sciare si è ridotto di un mese rispetto al recente passato; i costi per le imprese sono uguali se non maggiori, ma i profitti si sono inevitabilmente ridotti. Inoltre, domina l’imprevedibilità: una volta si programmava la settimana bianca con mesi di anticipo, oggi è impossibile farlo. E non inganni nemmeno il risveglio di interesse che pare esserci per il turismo invernale. È il colpo di coda di un animale ferito a morte. Per chi studia le dinamiche del turismo, il quadro è molto chiaro. Qualcuno non sarà d’accordo, lo capisco, ma i numeri attuali non torneranno più. Serve una ritirata ordinata, sapendo, senza farsi soverchie illusioni, che si possono salvare in parte presenze e occupazione solo diversificando l’offerta e orientandosi sulle attività apprezzate dalle giovani e giovanissime generazioni: trekking, mountain bike, parapendio, zipline e così via.»
Parole del solito ecoambientalista antisistema o di un attivista di qualche gruppo radicale come Extinction Rebellion? No, di Claudio Visentin, noto storico del turismo, docente da anni al Master in International Tourism dell’Università della Svizzera Italiana (USI) di Lugano, riprese dal “Corriere del Ticino” in un articolo del 12 febbraio scorso significativamente intitolato L’ultimo turista sugli sci? «Arriverà nell’inverno 2040».

Non è che l’ennesima di una lunga serie di testimonianze scientifiche che attestano la realtà presente e futura dell’industria turistica dello sci, e non sarà certamente l’ultima, ma che tali considerazioni giungano da un ambito accademico svizzero denota come la questione coinvolga l’intera catena alpina, non solo il suo versante sud inesorabilmente più esposto agli effetti del cambiamento climatico. Ovunque sulle Alpi, entro pochi anni e al di sotto dei 2000 metri, non si potrà più sciare se non generando impatti economici e ambientali insostenibili.
Eppure, sulle montagne italiane, alpine e appenniniche, continuano a fioccare non nevicate ma ingenti finanziamenti a favore di progetti di sviluppo dei comprensori turistici, addirittura di riattivazioni di stazioni in difficoltà o ferme da anni o alimentanti quello che da più parti di definisce un «accanimento terapeutico» atto a mantenere aperti impianti e piste sostanzialmente già fallite. Interventi quasi totalmente dedicati a località al di sotto della suddetta fatidica quota di 2000 m indicata dai report scientifici come quella che potrà garantire qualche lustro in più di attività sciistica – sempre che l’evoluzione del cambiamento climatico non acceleri e i suoi effetti diventino ancora più gravi di quelli a cui stiamo assistendo ora.
Ma c’è un’altra evidenza che, per diversi aspetti, lascia ancora più sconcertati. In molte delle comunità residenti nei territori montani ove giungono i suddetti finanziamenti per tentare di mantenere attivi i comprensori sciistici, nonostante le evidenze scientifiche sentenzino la loro inutilità e dunque lo spreco di ingenti risorse – certamente ben più utili e necessarie per innumerevoli altri servizi, bisogni e necessità di cui le montagne avrebbero urgenza – una parte importante degli abitanti, a volte la maggioranza, si dichiara “favorevole” a queste iniziative. Come può essere possibile, a fronte appunto della realtà di fatto descritta e ormai innegabile?
Le possibili risposte a questo interrogativo concernono gli aspetti più prettamente culturali – sociologici, antropologici e, si potrebbe supporre, psicologici – dei temi legati all’impatto dell’industria turistica dello sci sulle comunità dei territori montani. Un impatto, al netto delle questioni ambientali, un tempo certamente positivo in termini di vantaggi materiali per quei territori ma ormai da qualche decennio e in misura crescente sempre più svantaggioso, in diversi modi deleterio. Sembra di essere di fronte a una manifestazione prettamente turistico-alpina della nota sindrome di Stoccolma, quel particolare stato psicologico e patologico che può interessare le vittime di un abuso ripetuto le quali, in maniera apparentemente paradossale, nutrono sentimenti positivi verso ciò che determina l’abuso subìto: il caso più classico è quello della persona rapita che sviluppa solidarietà e affetto per il suo rapitore, tuttavia manifestando poi effetti a breve e lungo termine quali sintomatologie ansiose, disturbi fisici e psicofisici e sintomi depressivi.
È un fenomeno che effettivamente può essere ben coniugato alle montagne turistificate per accanimento, alle quali in passato è stata tolta ogni altra alternativa socioeconomica e culturale – nel momento in cui vi venne imposto il modello sciistico, che cancellò ogni altra economia tradizionale locale e assoggettò la comunità ai suoi bisogni. Questi stessi luoghi, tutt’oggi vengono sovente trascurati rispetto alle istanze formulate e alle necessità delle quali abbisognerebbero – servizi di base, sanità, scuole, trasporti, cura del territorio, economie circolari eccetera. Le alternative, in quele comunità, mancano perchè vengono spesso poco (o nulla) sostenute dalla politica, più interessata a produrre risultati concreti e spendibili elettoralmente con rapidità. Gli abitanti dei territori montani sanno e saprebbero formulare visioni e azioni riguardanti lo sviluppo delle proprie montagne ben più consone, virtuose, efficaci e utili nel tempo rispetto alle iniziative e ai modelli, quasi sempre turistici, che invece vengono loro imposti, ma non hanno i mezzi materiali e immateriali per realizzarle. Per tutto questo molti di essi finiscono per rassegnarsi e a volte autoconvincersi che si debba essere favorevoli ai modelli del passato. Essenzialmente, non vengono loro concesse alternative e non sono aiutati a realizzarle da soli; di contro, viene loro detto che tutti quei fondi e quelle infrastrutture realizzate servono proprio per «tenere al centro la comunità» quando invece la marginalizzano sempre più, alienandola dalle sorti del territorio che abitano e vivono.
Un’alienazione peraltro da tempo segnalata in ambito montano – come non citare al riguardo il fondamentale testo di Annibale Salsa Il tramonto delle identità tradizionali? Ma più di recente ne ha scritto anche Marco Albino Ferrari in Assalto alle Alpi – che, non causalmente, ricorda gli effetti manifestati proprio dai soggetti che hanno subito la sindrome di Stoccolma, citati poco fa. Tuttavia, anche al netto di così suggestivi rimandi, è evidente che tale questione debba essere inevitabilmente correlata e analizzata insieme a qualsiasi altra che compone la realtà del turismo alpino contemporaneo, al fine di attivare i necessari cambi di paradigmi che chiunque si occupi scientificamente del tema ritiene quanto mai urgenti, proprio in forza dell’innegabile stato di fatto delle cose, sui monti. Ne va del futuro dei territori montani e della salvaguardia del loro paesaggio nonché, e soprattutto, del benessere delle loro comunità alle quali vanno offerte prospettive di sviluppo ben più consone e efficaci. A questo obiettivo sì, non ci può essere alternativa.