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Ambiente | 15 gennaio | 06:00

Sentendo la morte ormai vicina a soli 41 anni disse: "Voglio vedere le mie montagne". Giovanni Segantini, artista sensibile e solitario

È nato il 15 gennaio 1858. Ricordandolo, ripercorriamo insieme le principali fasi della sua vita e ricordiamo che Arco, fino al 26 gennaio, ospita nella galleria civica una sua mostra, finalizzata anche a celebrare l'importante acquisizione dell'opera intitolata "Sole d'Autunno"

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

In occasione dell'anniversario della nascita, riprendiamo un articolo dedicato a Giovanni Segantini ricordando che Arco, fino al 26 gennaio, ospita nella galleria civica una sua mostra, finalizzata anche a celebrare l'importante acquisizione dell'opera intitolata Sole d'Autunno.

Iniziare dalla fine, ricordando quanto Giovanni Segantini disse, sentendo la morte avvicinarsi a soli 41 anni -  colpito da peritonite all’interno di una baita sul ghiacciaio dello Shafberg, dove si era recato per dipingere la parte centrale del celebre Trittico della natura - “Voglio vedere le mie montagne”, fa immediatamente capire quanto stretto fosse il suo rapporto con quanto andava rappresentando.

 

Giovanni Segantini era nato ad Arco, il 15 gennaio 1858, un compleanno sempre importante il suo da ricordare.

 

Un periodo iniziale durissimo, superato con la convinzione di poter passare indenne tra le disavventure con la sola forza di volontà. Dopo la morte della madre, ancora bambino, venne affidato alla sorellastra, operaia a Milano. Passa qualche anno e, dodicenne, Segatini (aggiungerà la enne nel cognome nel 1879) arrestato per vagabondaggio, sarà destinato all’Istituto Marchiondi, a quel tempo utilizzato come riformatorio, dal quale fuggirà l’anno successivo. Nuovamente rinchiuso, potrà godere della libertà solo nel gennaio 1873, grazie all’intervento dell’altro fratellastro, Napoleone, che si offrirà di ospitarlo a Borgo Valsugana. Nel ricordare che a quel tempo il fratello gestiva un negozio di materiale fotografico, si porta un contributo rilevante alla comprensione dell’artista: la fotografia, infatti, senza suggerire modelli precisi nella costruzione del dipinto, influenzerà in maniera decisiva l’impianto compositivo delle sue opere. La sua è una realtà spesso osservata in controluce, così da creare contrasti e sbalzi luminosi. Mentre allarga con naturalezza il diaframma della propria sensibilità, egli spesso avvicina i primi piani, collocando in lontananza una serie di riflessi che paiono superare la linea dell’orizzonte.

Non senza ragione, lo si è definito artista apolide. Arco, al momento della sua nascita era austriaca. Ma sarà il trasferimento a Milano a segnarne la formazione, non solo come allievo a Brera, ma anche per il crocevia di stimolanti incontri che la città già a quel tempo offriva, tra cui quello con i fratelli Grubicy, importanti mercanti d’arte. Fu questo un ponte verso l’Europa che gli permise di esporre a Bruxelles, Amsterdam, Monaco, Vienna, Dresda. Inoltre, proprio grazie a Vittore Grubicy (a sua volta pittore) Segantini, vedendole in galleria, entrerà in contatto con le opere di artisti che ne influenzeranno la ricerca espressiva: primo tra tutti forse Millet.

Punto di riferimento culturale all’interno della sua irregolare e tempestosa formazione, sarà ancora Vittore a spingerlo con decisione sulla via del Divisionismo, intuendo come egli potesse elaborarne una caratterizzazione diversa, sollecitata dal rapporto diretto con la natura. Un divisionismo non picchiettato sulla tela, con sobrietà ed eleganza, ma allungato in filamenti cromatici, così da solidificare la luce in ruvidi strati. Ecco l’origine delle profonde scanalature nei quadri della sua stagione matura, presenti nella superficie per conferire all’emozione un’epidermide o, meglio, una resistente corteccia. In sostanza, Segantini ritrae se stesso: delicato e ruvido al tempo stesso. Tra Millet e Van Gogh, senza l’immersione spirituale dell’uno, né l’incontenibile foga e i drammi dell’altro. Naturalista fedele e rispettoso e, al contempo, visionario e simbolista.

Col cuore in vetta e con l’animo del solitario - incapace però di esserlo completamente - egli si sente un esploratore che racconta il suo mondo a un pubblico stupito.

Apolide, dunque, senza passaporto (dichiarato renitente alla leva dal governo austriaco). Di sicuro italiano, per gli anni milanesi e per il successivo periodo in Brianza; non meno, però, anche svizzero, dopo aver imboccato a piedi, nel 1886, la via “verso l’alto”: Pontresina, St. Moritz, Silvaplana e, infine, Savognin nei Grigioni, a 1200 metri di altitudine. Qui rimarrà sino al 1894, per fuggire ai debiti, andrà poi in Engandina, stabilendosi nello Chalet Kuoni a Maloja, isolandosi ancora più in alto.

In modo sornione, amava definirsi una sorta di orso. Potremmo anche credergli se ci fermassimo al carattere, però di lui sono rimaste le opere. Dell’orso indubbiamente vi è l’impeto e l’energia, ma in esse egli manifesta anche la delicata sensibilità di un animo che, fortificandone il talento, rese grande la sua pittura.

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