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Ambiente | 09 ottobre | 06:00

"Qui arrivò solo la coda dell’onda assassina. Hanno deciso di lasciare i segni sulla scuola a ricordo della tragedia". Vajont: una catastrofe fuori scala

Quella del Vajont è stata la più grande e mortale frana europea da che se ne abbia memoria. A rendere la tragedia unica sono state la dimensione colossale e la causa: l'intervento umano. La diga e il gigantesco invaso artificiale alterarono i delicati equilibri geologici di una vallata fragile, cancellando in pochi secondi l'esistenza di duemila persone. L'insegnamento che arriva dalle vittime di quel 9 ottobre 1963 vive ancora oggi? Abbiamo imparato a rispettare gli ambienti naturali per soddisfare i nostri bisogni? Iniziamo con questo articolo una breve raccolta di testi per approfondire alcuni aspetti della tragedia del Vajont, evento unico e terribile. Speriamo irripetibile

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

La catastrofe del Vajont è una delle tragedie più studiate e conosciute e non soltanto nel nostro paese. Il 9 ottobre del 1963 una gigantesca frana dal volume di oltre 250 milioni di metri cubi si staccò dal Monte Toc, precipitando nel sottostante invaso artificiale: il lago del Vajont. La colossale mole di roccia e detriti riempì il bacino, sbalzando decine di milioni di tonnellate di acqua oltre la diga che lo sbarrava. Dopo una caduta di 300 metri, la furia liquida investì Longarone, portandosi via duemila vittime e un intero paese.

 

Con questo contributo ha inizio una breve rassegna di approfondimenti su questo evento. Il disastro del Vajont è stato tanto catastrofico quanto importante nel plasmare la percezione del rapporto tra la nostra specie e l'ambiente naturale. Il motivo? La causa dell'enorme dissesto fu la nostra mano. Quella vallata non era infatti adatta a ospitare una diga e un invaso di tali dimensioni. A 61 anni esatti dal giorno della catastrofe, ho scelto di condividere le sensazioni che ho provato pochi mesi fa, quando ho trascorso un'intera giornata nei luoghi del Vajont.

 

Quel giorno, dopo alcuni tentennamenti, decidemmo infine di mangiare i panini su quella terrazza sospesa che svetta dal tetto della vecchia scuola di Casso. Un altare proteso sulla tetra cicatrice incisa nella montagna. Da lassù, la frana del Vajont appare infatti come una lugubre smorfia sdentata e slabbrata, spalancata sul versante meridionale del Monte Toc. Quella terrazza è uno dei rari luoghi da cui è possibile coglierla in un unico sguardo. Altrove -vuoi per motivi prospettici, vuoi per le proporzioni fuori scala- la frana si mostra un pezzo alla volta, rendendo difficile cogliere le dimensioni fisiche del disastro. Quella del Vajont è una tragedia fuori scala. Anche l’omonima diga è talmente alta e imponente che è difficile da osservare, fotografare e in qualche modo comprendere.

 

Masticando il pranzo nessuno azzardava battute e costava fatica distogliere lo sguardo da quelle strisce marroni che tagliano la montagna. Avevamo davanti agli occhi una frana e duemila morti.

Erto e Casso sono due paesi incastrati tra i terrazzi del versante settentrionale della Valle del Vajont. Quel giorno di ottobre 1963 furono solo sfiorati dalla furia precipitata nel neonato lago artificiale. I due borghi ce l’hanno in faccia la frana, alta e spavalda sull’altro versante della valle. Fu una provvidenziale sporgenza della montagna a proteggere Erto dall’onda sollevata dal crollo. Casso, arroccata proprio sopra la diga, si salvò grazie alla posizione elevata. Eppure, come racconta Tina Merlin, è tra i vicoli di Erto e Casso che bisogna cercare «La storia di prima», i semi da cui nacque «la storia di quella notte tremenda, tragica e spietata». Tina Merlin fu la principale giornalista che negli anni precedenti al disastro cercò in tutti i modi di denunciare i rischi e i soprusi che accompagnarono la costruzione dell'impianto.

 

Erto e Casso non custodiscono solo il prima della catastrofe, anche il dopo. A Longarone tutto avvenne in un istante. Un paese cessò di esistere nell’arco di pochi minuti. Prima, poi, presente, passato, futuro. Per chi quella sera si trovava nella piccola cittadina stesa in fianco al Piave, il tempo smise improvvisamente di avere significato. Erto e Casso furono invece solo sfiorati. Lassù, specie nelle contrade più vicine alle sponde del lago, morirono comunque a decine, ma per quei piccoli borghi di montagna fu possibile un futuro, i muri delle case rimasero in piedi. Quale futuro? Sicuramente tetro, arrivato dopo un disastro che altro non fu se non la indegna conclusione di decenni di prepotenze perpetrate da chi volle la diga e il lago a ogni costo.

 

Toniamo però a quel pranzo. Prima di allora non avevo mai visto la vecchia scuola di Casso. Avvicinandomi all’edificio, mentre lo squadravo distratto, un pensiero mi balenò in testa. Non lo nascondo, di quel pensiero mi vergogno. Notai che i muri della scuola erano tutti scrostati, con l’intonaco ridotto a minime chiazze decrepite. Crepe, addirittura buchi, ne costellavano la superficie. “Un borgo mezzo abbandonato e l’incuria ha avuto il sopravvento”, questo pensai e subito archiviai l’ingenua e inopportuna osservazione.

"Avete visto i segni?", così disse una persona di lì a poco. E subito tornai alla carica: “Certo che li ho visti, potevano dare una rinfrescata, peccato”. “Che dici Giovanni? È la vecchia scuola di Casso e quelli sono i danni lasciati da quella notte. Qui arrivò solo la coda dell’onda assassina, ma si fece sentire. Hanno deciso di lasciare i segni a ricordo della tragedia”. Ecco, la vergogna. Vergogna per aver immaginato che una piccola comunità segnata da una tragedia tanto grande avesse trascurato la cura della scuola, mentre l’intenzione era in realtà quella opposta: ricordare. Ho appoggiato la mano su quei muri graffiati, sui buchi, sulle incisioni, e ho provato a immaginare quale forza li avesse prodotti. Una forza capace di uccidere duemila persone in un istante.

 

Quella del Vajont è stata una tragedia per molti versi unica, uno di quegli spartiacque che definiscono un prima e un dopo. La più grande e mortale frana avvenuta in Europa da che ne abbiamo memoria. E a provocarla non fu l’impercettibile incedere del tempo geologico. Fu la sconsiderata mano di chi in cerca di giganteschi profitti trascurò tutto il resto. La posta in gioco? Guadagno e potere. Come disse Tina Merlin, se la tragedia del Vajont avesse un marchio, sarebbe sicuramente quello del potere. Aggiungerei poi la superbia, l’arroganza di chi credeva di aver compreso e domato la natura ma stava in realtà compiendo un errore madornale e terribile.

 

Sono passati 61 anni da quel 9 ottobre e il Vajont continua a insegnarci qualcosa sul complicato dialogo che la nostra specie ha instaurato con il mondo naturale. Stiamo davvero ascoltando quegli insegnamenti? Nel prossimo episodio di questa rassegna cercheremo di capire il perché della diga del Vajont e della sua altezza spropositata.

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