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Ambiente | 18 novembre | 13:45

"Il dilemma angosciante tra rimanere e adattarsi, o abbandonare la terra che abbiamo chiamato casa per millenni"

Le terre alte del pianeta, le Alpi come l'Himalaya, le Ande, le Montagne Rocciose e così via, si trovano ad affrontare sfide nuove e sempre più stringenti, come le inondazioni dovute all'esplosione dei laghi glaciali. Essere consapevoli di ciò che sta succedendo e soprattutto di ciò che succederà è solo il primo passo di un percorso che deve portare a cooperazione internazionale e mobilitazione di grandi capitali. Una chiamata all'azione arriva forte dalla regione dell'Hindu Kush Himalaya, e in particolare dal Bhutan

scritto da Sofia Farina

Qual è la prima cosa che vi viene in mente se vi dico: “Bhutan”? Forse vi ricorderete che è il paese che qualche anno fa ha introdotto il concetto di “felicità interna lorda”, un indicatore del benessere dei suoi abitanti da preferire rispetto al solito “prodotto interno lordo” (la notizia era subito diventata pop ed era stata ripresa dai media di tutto il globo), oppure, se siete dei montanari che risentono fortemente del fascino delle terre molto alte, la vostra mente volerà alle cime himalayane (il paese contiene numerosi ottomila e seimila, nonché la più alta montagna ancora inviolata, Gangkhar Puensum, 7570 metri sul livello del mare).

 

Alcuni sostengono che il nome del paese derivi dalla parola sanscrita bhu-uttan, che significa "terra alta", proprio perché si tratta di una nazione costituita per lo più da montagne ripide e alte attraversate da una fitta rete di fiumi che corrono a valle, localizzata a più di 500 chilometri dall’oceano più vicino.

 

Il Bhutan è un posto speciale anche perché più della metà della sua superficie è protetta, ospita diversi parchi nazionali e santuari per gli animali selvatici, oltre che numerose riserve naturali. E se questo non bastasse a convincervi, sappiate che si tratta di un paese che ha dedicato una porzione sostanziale della sua terra alla creazione di corridoi biologici - definiti dal paese stesso un “regalo alla Terra” - per connettere le aree protette tra loro ed evitare la frammentazione degli habitat.

 

Ma perché stiamo parlando di Buthan? Perché ci tenevo a usare questo spazio per riportare le parole di Pema Gyamtsho, direttore generale di Icimod, il Centro Internazionale per lo Sviluppo Integrato della Montagna, una realtà che lavora sulla conoscenza e sullo sviluppo dell’area dell’Hindu Kush Himalaya, con base a Kathmandu. Nella loro mission, si legge: “Le conoscenze che creiamo e condividiamo aiutano le persone a diventare più resilienti, a sfruttare al meglio le nuove opportunità e a prepararsi al cambiamento”.

Ecco, qui a Cop29, a Baku, Gyamtsho ha partecipato a un incontro con tutti i capi di stato e i rappresentati della macro-regione himalayana per “discutere della crisi nel continente con le maggiori riserve di acqua congelata”.

Nel comunicare al resto della comunità internazionale i risultati delle lunghe ore di discussione e ragionamento del gruppo, Gyamtsho ha usato queste parole: “Anche quest'anno, in tutta la regione, le famiglie hanno pianto i loro morti, contato le terre, i mezzi di sussistenza e la ricchezza perduti, e affrontato il dilemma angosciante tra rimanere nelle città e nei villaggi di montagna e cercare di adattarsi a condizioni estremamente incerte, e abbandonare le case e tagliare i legami con i paesaggi a cui le loro comunità sono state legate per millenni”.

 

“Per affrontare questa crisi crescente - ha dichiarato - dobbiamo dare priorità alla preparazione alle catastrofi, incrementare i finanziamenti per l'adattamento e indirizzarli dove sono più importanti, perseguire il potenziale vincente della lotta all'inquinamento atmosferico, promuovere nuovi investimenti, quantificare i costi economici per sostenere efficacemente il finanziamento delle perdite e dei danni e sostenere un maggiore coordinamento delle politiche”.

 

La macro-regione himalayana e soprattutto, i suoi abitanti, infatti stanno subendo impatti più gravi difficili da gestire anno dopo anno, con un’escalation che ha portato al verificarsi di diverse tragedie anche nei pochi mesi dell’estate 2024.

 

Tra gli impatti di più complessa gestione ci sono i Glof, una sigla che sta per “Glacial Lake Outburst Flood” che potremmo tradurre con “inondazioni dovute all’esplosione di laghi glaciali”. Di glof si sta parlando molto in questa Conferenza per il clima: ne parlano gli scienziati così come i rappresentanti dei territori e delle amministrazioni, perché il loro verificarsi ha degli impatti disastrosi (l’alluvione di Thame a settembre, ad esempio, ha spazzato via un intero villaggio uccidendo in pochi minuti più di 150 persone).

 

Essenzialmente, quando le morene, il ghiaccio o i detriti formano delle dighe naturali che trattengono le acque di fusione dei ghiacciai, formando quelli che vengono definiti laghi glaciali. Ecco, può succedere che - a causa dell’aumento delle temperature che a sua volta determina frane, o crolli di seracchi, oppure a causa di terremoti - queste dighe naturali cedano, riversando delle quantità enormi di acqua, ghiaccio e roccia su tutto ciò che si trova al di sotto di esse, e quindi spesso su villaggi e infrastrutture a valle.

 

Riporto qui una mappa presa da un rapporto appena pubblicato proprio sui glof, che mostra (tramite il colore) il surriscaldamento delle diverse regioni del pianeta (e qui suggerisco di notte come le montagne si siano scaldate molto più velocemente del resto), le catene montuose che sono coperte da misure di riduzione del rischio legate all’avvenimento di glof, e il relativo rischio. Vi invito a guardarla per notare una cosa: le Alpi non sono esenti da questo fenomeno, anzi!

Qui a Cop29, oltre a portare l’attenzione globale su questo problema sempre più diffuso, si sta parlando anche molto di come ridurre i rischi associati a questi eventi esplosivi e, in generale, di come proteggere le comunità e le infrastrutture del loro impatto.

 

Attualmente, nella maggior parte delle regioni che sono colpite da questo problema, la gestione del rischio si è concentrata sulla riduzione del rischio tramite un approccio strutturale, tramite il drenaggio dei laghi, o l’abbassamento del livello dell’acqua in essi, o ancora stabilizzando artificialmente la diga o i canali che da essa si dipanano.

 

Il problema di questo tipo di misure è che sono tipicamente limitate nella loro estensione spaziale e soprattutto che offrono dei benefici solo nel breve-medio termine. Per questo motivo la discussione politica e scientifica che si sta portando avanti all’interno della conferenza punta a sottolineare la necessità di cambiare radicalmente approccio, e di farlo subito.

 

Le montagne non sono isole, e non sono isole neanche i laghi glaciali o le inondazioni che derivano dalla rottura delle dighe naturali che li tengono stabili dove sono: per questo, per affrontare il problema per davvero, dobbiamo includerlo in strategie di più larga visione, che siano interdisciplinari, che puntino sulla cooperazione inter-regionale e inter-statale e soprattutto che lavori a stretto contatto con le comunità locali, ascoltandole e formandole.

Proprio in Bhutan c’è un progetto che gestisce i glof insieme alle siccità, alle alluvioni, alle tempeste di vento e agli incendi delle foreste: perché anche se possono sembrare fenomeni molto diversi tra loro, sono tutti determinati dalla stessa causa (il cambiamento climatico) e richiedono tutti la stessa risposta (adattamento e sistemi di gestione dei disastri e del rischio).

 

Gli approcci dall'alto verso il basso e l'inadeguatezza del coordinamento e della cooperazione delle parti interessate indeboliscono il senso di appartenenza e di responsabilità a livello locale, che sono invece necessari per una gestione del rischio efficace e sostenibile a lungo termine. La percezione del rischio locale e i livelli di tolleranza sono determinati da un insieme di fattori che comprendono l'esperienza, le norme culturali e sociali e i le credenze religiose e conseguentemente la gestione del rischio deve partire dall’impegno e dalla formazione delle comunità locali ma anche dall’ascolto delle loro esigenze e aspettative.

 

Ad ogni modo, rimane fondamentale sottolineare un messaggio che trova una cornice perfetta in questa “Cop della finanza”: tutto questo può succedere (e soprattutto può succedere rapidamente) solamente tramite sostanziali investimenti finanziari, anche perché, ripetendo il ritornello di questa Cop (e non solo), l’inazione è più costosa dell’azione, come testimoniano i danni economici devastanti che le alluvioni da laghi glaciali hanno determinato nei settori turistici ed energetici.

l'autore
Diario da Cop29

Questo spazio è dedicato al racconto della Cop29, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si svolge dall'11 al 23 novembre 2024 a Baku, in Azerbaigian. Sofia Farina seguirà i negoziati sul posto per L'AltraMontagna, portando i lettori nel mondo dei negoziati climatici, guidandoli alla scoperta delle questioni più stringenti per i leader del pianeta (e non solo)

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