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Ambiente | 26 ottobre | 18:00

I mille modi per dire "neve". Quando la lingua si modella sulle necessità pratiche, sulle preoccupazioni, sulla cultura

Tra le esperienze quotidiane che influenzano una lingua, i fenomeni atmosferici occupano un posto importante. Queste peculiarità lessicali si possono riscontrare anche nelle minoranze linguistiche italiane, come ad esempio la lingua ladina

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Alcuni linguisti collegano strettamente la lingua alla cultura, all’identità e alla storia dei suoi parlanti. Tant’è che, chi ha imparato una seconda lingua lo sa, a volte non esiste una perfetta corrispondenza tra le due diverse lingue. A sua volta, la lingua diventa specchio della realtà vissuta dalla comunità che la parla evolvendosi in base a ciò che i parlanti fanno e vedono ogni giorno. Secondo l’Unesco, infatti, la lingua è un elemento che fa parte del patrimonio culturale immateriale di una popolazione.

 

Tra le esperienze quotidiane che influenzano una lingua, i fenomeni atmosferici occupano un posto importante. È piuttosto nota la leggenda che riguarda gli Inuit e le loro numerose parole per definire la neve. Sebbene questa leggenda sia stata modificata nel tempo e discussa da diversi linguisti, è noto che le lingue eschimesi possiedono un ricco e complesso vocabolario per descrivere neve, ghiaccio e vento. Un altro esempio interessante, forse meno conosciuto, è il giapponese, che presenta molte espressioni per descrivere la pioggia, cogliendone le diverse sfumature.

 

Queste peculiarità lessicali legate ai fenomeni atmosferici si possono riscontrare anche nelle minoranze linguistiche italiane, come ad esempio la lingua ladina. La lingua ladina è una lingua retoromanza parlata ancora oggi nelle sue diverse varianti in alcune zone del Trentino Alto Adige e del Veneto, e nello specifico: la Val Badia, la Val Gardena, la Val di Fassa, la Valle di Fodóm (Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia) e la Valle d'Ampezzo. 

 

Le varie definizioni della neve - non solo in ladino - hanno un interesse pratico e servono a informare sul tipo di neve e anche sul tipo di lavoro che porta con sé o quanto c’è da preoccuparsi.

 

Il sito web del Museo Dolom, nella pagina "1000 modi per dire neve", riporta i seguenti esempi riferiti a diverse località delle Dolomiti bellunesi:

  • Neve che fa spessore rapidamente: nef che bina o nef che taca
  • Neve per cui non c’è da preoccuparsi perché scende ancora a fiocchi radi, fulischea, fidischea, gratoléa, maiuthleia
  • Neve asciutta e polverosa e quindi facile da spalare: seca, arsa, zisna, zìsima, sbroilu
  • Neve bagnata e pesantissima: siròca, piombega, tùmega
  • Neve spinta da un a un vento tempestoso néo da borasca, nef gonfedada, sonfdu (pericolosa soprattutto in quota)

Il ladino Ampezzano ha anche un lessico di contorno legato alla neve, ad esempio indicazione delle misure della neve: può essere alta na scarpa, en polpaccio, en zenocio, al forzel

 

Interessanti sono infine i detti sulla neve legati alle stagioni: 

  • in agordino, il detto quande che la nef la vien su la foia, la se para la voia sta a indicare che se una nevicata è troppo precoce (quelle di ottobre per intendersi) si rischia di passare un inverno troppo asciutto 
  • a proposito delle nevicate marzoline, a Zoppè si dice: Marz tanta ‘l en cata, tanta’ l en laga (marzo tanta ne trova, tanta ne lascia), come a dire che la neve che cade a marzo non resisterà a lungo.
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