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Alpinismo | 15 agosto | 18:00

Poche luci e tante ombre sulla spedizione "femminile" del Cai K2-70. Diversi interrogativi sono in attesa di una risposta

Tanti i non detti, numerose le domande senza risposta per una spedizione che ha inevitabilmente assunto una forte carica simbolica. Allora, affinché venga divulgata una fruizione consapevole e limpida della montagna, Alessandro Filippini – uno dei più preparati giornalisti sul tema dell’alpinismo himalayano, già in forze alla Gazzetta dello Sport, autore di film e libri sulla storia dell’alpinismo – ha formulato alcuni interrogativi accompagnati da considerazioni, nella speranza che eventuali risposte offrano maggior trasparenza

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Il Cai, con un comunicato ufficiale, pochi giorni fa ha dato per terminata la spedizione “femminile” italo-pakistana K2-70, organizzata per celebrare il settantesimo anniversario della prima salita.

 

Considerata la potenza mediatica dell’iniziativa e considerato l’importante ruolo che il Club Alpino Italiano riveste per sensibilizzare chi va in montagna, sembra indispensabile sviluppare alcune riflessioni e anche qualche domanda al fine di comprendere meglio come ha preso forma un’iniziativa che a prima vista sembra disallineata rispetto alle traiettorie alpinistiche del presente. 

 

C’è chi (come la nota alpinista Nives Meroi, una delle non molte voci che si sono fatte sentire) l’ha definita anacronistica, superata nell’approccio così come nelle formalità. È sufficiente pensare alla cerimonia della bandiera italiana, consegnata dal Primo ministro nella convinzione che sarebbe stata fatta sventolare in vetta. Cosa che poi, come sappiamo, non è avvenuta. Infatti Silvia Loreggian, Federica Mingolla, Anna Torretta e Cristina Piolini alla vetta non si sono nemmeno avvicinate, anche per motivi indipendenti dalla loro preparazione. 

 

Tanti i non detti, numerose le domande senza risposta per una spedizione che ha inevitabilmente assunto una forte carica simbolica. Allora, affinché venga divulgata una fruizione consapevole e limpida della montagna, Alessandro Filippini – uno dei più preparati giornalisti sul tema dell’alpinismo himalayano, già in forze alla Gazzetta dello Sport, autore di film e libri sulla storia dell’alpinismo – ha formulato interrogativi accompagnati da alcune sue considerazioni, nella speranza che eventuali risposte offrano maggior trasparenza. 

Questi gli interrogativi che attendono risposta.

 

 

Con quale obiettivo la spedizione è stata definita “femminile” se, alla prova dei fatti, femminile non era?

Come noto, era sì prevista la partecipazione di otto scalatrici, equamente divise fra i due Paesi coinvolti, ma questo non bastava certamente a renderla una spedizione "femminile". Infatti già nei programmi le scalatrici dovevano essere accompagnate da portatori d'alta quota e nei fatti sono stati questi portatori pakistani a far pervenire appunto in quota i materiali per rifornire i campi (poi in vetta non è arrivato il solo Ali Durani, dietro la squadra di Sherpa che ha attrezzato la parte decisiva della via, ma, in un secondo momento, anche due dei suoi connazionali). Questo rende la spedizione del Cai vicina alle altre spedizioni commerciali che avevano fra i partecipanti anche delle scalatrici: erano forse tutte spedizioni "femminili"?
E non dimentichiamo che in un primo momento si era tentato di presentare la spedizione come la "prima femminile al K2". Dichiarazione non corrispondente alla realtà: in passato, infatti, ci sono stati team composti davvero da sole donne che hanno affrontato quel bellissimo Ottomila. 

 

 

Come mai si può dire che alcune scelte sembrano appartenere a un passato alpinistico superato, e dunque anacronistico?

Le alpiniste coinvolte non si sono proposte per scalare il K2, ma sono state "scelte". Da chi e come non è mai stato chiarito. Se ai giorni nostri una spedizione nazionale a un Ottomila ha già un sapore anacronistico, fuori dai tempi sembra essere un Club alpino che fa sua una spedizione in cui la partecipazione avviene per "chiamata". Nel 1954 Ardito Desio, che non era un alpinista, si affidò proprio al Cai per l'organizzazione della ricerca di possibili candidati e di una selezione fra di essi. Quale selezione c'è stata 70 anni più tardi? Non è inoltre stato spiegato in base a quali criteri e condizioni (anche economiche) le scalatrici scelte hanno aderito. Così torna la domanda: ma da chi e come tutto è stato deciso?
E anche il capo spedizione Agostino Da Polenza è stato "ingaggiato", come lui stesso ha lasciato intendere in una intervista, o era dall'inizio il "motore" dell'idea di questa spedizione considerati i suoi rapporti variegati e pluriennali con il Pakistan? 

 

Quali sono state le ragioni di una comunicazione della spedizione che, in un mondo mediatico imperniato sull’immediatezza, è avvenuta spesso in ritardo e si è rivelata non di rado scarna e forse troppo sintetica?

A parte le possibili difficoltà legate a disservizi con i collegamenti satellitari, osservando i profili social delle italiane impegnate sul K2 si ha la sensazione che vi fossero dei limiti imposti nel racconto dell’esperienza: sia per quel che riguarda i testi dei post (soprattutto dall'arrivo al campo base in poi), sia per quel che riguarda le immagini delle rotazioni sullo Sperone Abruzzi. Insomma: un tuffo nell'era degli Herrligkoffer (il rigidissimo capo delle spedizioni germaniche al Nanga Parbat degli Anni 50-70 del secolo scorso) e dei Desio. Desio peraltro si riservò sì l'esclusiva per i diritti sulle fotografie e per il libro che doveva diventare la relazione ufficiale della spedizione del 1954, ma lo fece al fine di finanziarla, visto che aveva cominciato a organizzarla ben prima di essere sicuro di poter raccogliere i soldi per portarla a termine, e contava che fossero importanti gli introiti da quelle due voci (e anche dai proventi del film, ma questa è un’altra storia).

 

 

Qual è stata la cifra totale del costo della spedizione? In che misura la Rai ha contribuito, se lo ha fatto? 

Da quel che si capisce, nella spedizione "femminile" del Cai i diritti erano appunto “riservati”, probabilmente in funzione di trasmissioni e di un futuro film della Rai. Lo ha scritto esplicitamente in un post Cristina Piolini. In che misura la Rai ha contribuito, se lo ha fatto, agli importanti costi della spedizione? 

E qual è stata la consistenza effettiva di questi costi? Aspetto non secondario, considerato che in ogni caso si tratta di spese effettuate con soldi pubblici, il che dovrebbe richiedere la massima trasparenza. 

Qual è la cifra totale del costo della spedizione, che aveva in partenza anche scopi scientifici, “boicottati” da una sfortunata valanga? E che fine faranno i materiali donati da sponsor tecnici come Grivel e, soprattutto, Ferrino? Sono a disposizioni di soci Cai che vogliano organizzare future spedizioni in Karakorum?

 

La formazione delle cordate e le stesse rotazioni sono state decise "centralmente" senza possibilità di scelta e di decisioni autonome da parte delle scalatrici?

Se così fosse, la spedizione sarebbe ahinoi una floscia riedizione di un passato fortunatamente lontano per l'alpinismo himalayano: ormai da decenni sugli Ottomila, e a maggior ragione su una frequentata e attrezzata via normale, si parte per mettere tutti nelle condizioni di andare in vetta e non per "fare la piramide", ossia chiedendo a qualcuno di sacrificarsi per il bene superiore del successo della spedizione. Che la formazione delle cordate e le stesse rotazioni siano state decise "centralmente", senza possibilità di scelta e di decisioni autonome da parte delle scalatrici, è stato tuttavia suggerito da Piolini e in qualche modo confermato dagli stessi comunicati ufficiali. Situazione che al giorno d'oggi appare fuori dai tempi per delle guide alpine. Certo, non tutte e non allo stesso modo già sperimentatesi sugli Ottomila. Ma qui si torna a una domanda già proposta: come e chi ha scelto le scalatrici che dovevano essere protagoniste della spedizione? E soprattutto: ha senso far esordire qualcuno, mai stato sugli Ottomila, proprio sul K2? E con lo scopo ufficiale di salirlo senza usare ossigeno supplementare? 

 

Cristina Piolini: una voce fuori dal coro?

Cristina Piolini, una delle quattro scalatrici italiane impegnate sul K2, ha aperto una vasta falla, sia con accuse non velate sulla gestione della spedizione, sia per quel che riguarda la salvaguardia della salute delle scalatrici (in primo luogo la sua, ovviamente, visto che è finita in ospedale dopo essere rimasta per molti giorni bloccata in tenda per problemi alla schiena, aggravatisi dopo un brusco movimento per schivare una scarica di sassi), sia per quel che riguarda almeno un episodio specifico sul quale tuttavia c'è stato totale silenzio. Si tratta del soccorso, a inizio luglio, a una delle scalatrici pakistane, Amina Bano, in gravi difficoltà già al bassissimo campo 1 forse (a causa di un possibile edema?) e riportata al campo base grazie all'assistenza che le ha fornito Piolini e all'intervento di alcuni Sherpa, che ne hanno accompagnato la discesa. La stessa Amina ha lasciato il campo base il giorno dopo, ma ufficialmente soltanto per accompagnare Samina Baig, che sfortunatamente si era ammalata subito dopo l’arrivo al campo base.

 

L’acclimatazione è stata insufficiente?

Certamente le condizioni meteo non sono state molto favorevoli, ma sul K2 è la norma. Il lungo tempo dell'attesa è stato da altri team sfruttato meglio, per garantirsi un'acclimatazione sufficiente (lo hanno ben dimostrato alcune salite, anche estreme, riuscite senza uso di ossigeno supplementare). L'acclimatazione delle due scalatrici, Federica Mingolla e Silvia Loreggian, che sono state scelte per fare il presunto tentativo di vetta, era insufficiente per lo scopo (solo una puntata di poche ore a campo 3, ma quello basso, a quota 7000 metri). Insufficiente soprattutto per il timing proposto per la salita, a tappe forzate: davvero estremo, soprattutto per chi - sia Loreggian, sia Mingolla - non aveva già alle spalle importanti esperienze di Ottomila. Avevano già provato invano salite veloci ai campi alti, ma l’intento è stato compromesso dal maltempo. Non poteva quindi funzionare lo sforzo diretto dal campo base a campo 3 e poi di seguito subito verso la vetta, saltando campo 4, salvo brevi soste per riposare a quei due campi. Infatti già l'arrivo a campo 3 è stato decisamente arduo (come confermato da Mingolla) e nettamente in ritardo sui tempi immaginati. In questa salita le due scalatrici erano affiancate da Marco Majori e da Federico Secchi, il quale poi è riuscito ad andare in vetta, mentre il suo compagno in discesa, a causa di una caduta in un crepaccio, ha avuto bisogno di assistenza. Al suo soccorso ha partecipato subito, raggiungendolo a campo 3, il francese Benjamin Védrines, che si era acclimatato tanto bene da riuscire a fare la salita da campo base avanzato alla vetta in sole 11 ore e che, per fortuna, dopo la discesa in parapendio era tornato a campo 2 per recuperare il suo materiale. 

 

 

Ancora due domande: questo tipo di iniziative, nel 2024, come possono divulgare una maggiore consapevolezza e sensibilità tra i soci Cai e più in generale tra i frequentatori della montagna? Come possono questi progetti avere la capacità di avvicinare le donne alla pratica alpinistica, immaginando che questo fosse uno dei principali obiettivi della spedizione “femminile”?

Nell’era delle spedizioni commerciali, che ora propongono i pacchetti con tanto di vetta “garantita” anche per una montagna come il K2 - sempre impervia e pericolosa per le difficoltá oggettive e per il meteo dalle rare e brevi finestre favorevoli -, era davvero il caso per il Cai di mettersi sullo stesso piano delle agenzie e del loro “turismo d’alta quota”, lasciando intendere che anche chi non ha esperienza di Ottomila (pensiamo soprattutto a tre delle quattro pakistane coinvolte) può andare subito a salire la seconda montagna della Terra? Ovviamente è una domanda che prescinde dal genere. D’altra parte, come detto, la spedizione fin dall’inizio non era “femminile” e alla fine ha visto arrivare in vetta tre uomini (i portatori pakistani) più uno, Federico Secchi, “inglobato” prontamente nella spedizione stessa. Come si era in qualche modo provato a fare anche 10 anni fa con Tamara Lunger, che invece aveva salito il K2 in autonomia, senza ossigeno supplementare e senza bisogno di aiuto di portatori. Dunque, visto che ancora prima di Tamara anche Nives Meroi aveva scalato la più alta montagna del Karakorum senza aiuti e portando con sé quanto le occorreva per andare in vetta (e in quel caso c’erano soltanto lei e suo marito, Romano Benet, sullo Sperone Abruzzi), non c’era alcun bisogno di proporre modelli vecchi di decenni alle donne italiane.

 

Ultima domanda: ma non era anche una spedizione celebrativa della prima salita di 70 anni fa?

Da una spedizione che ufficialmente aveva anche quella finalità e che ha visto le sue scalatrici, e tutta la compagnia che le ha affiancate, passare la maggior parte del tempo al campo base ci si poteva aspettare almeno lo sforzo di una gita al Memorial Gilkey, per una foto e qualche post, se non un comunicato ufficiale, in ricordo dello sfortunato Mario Puchoz, morto durante la spedizione del 1954. Vero è che la guida alpina di Courmayeur era deceduta il 21 giugno, mentre le alpiniste italiane sono arrivate al campo base il 27. Cioè proprio il giorno in cui 70 anni fa la salma di Puchoz fu traslata in lenta e triste processione dai suoi compagni di spedizione nel luogo in cui da allora è sepolta.

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