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Cultura | 13 febbraio | 12:03

L’agricoltura non sono solo trattori da 400 cavalli, ma l'assioma "contadino=trattore" è ormai radicato nel pensiero dominante

È curioso come in questi giorni in cui si parla di agricoltura e produzione di cibo, il simbolo del discorso siano solo ed esclusivamente trattori da 400 cavalli. Più che un discorso agricolo, pare una parata della grande industria. È come ammettere che tutto ciò che mangiamo e siamo debba essere esclusivamente prodotto in serie, con una meccanizzazione totale e disumana in ogni fase della filiera

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Una lunga, interminabile distesa di asfalto. Una altrettanto lunga, sconfinata distesa di lamiere e pneumatici. E poi sirene, clacson, accelerate a vuoto, smarmittate verso il cielo. È questa l’immagine del “rapporto con la terra” che da alcuni giorni campeggia sui mezzi d’informazione, accompagnando ogni riflessione circa una (sacrosanta) ridefinizione delle politiche comunitarie europee relative all’agricoltura.

 

È curioso, e forse anche un po’ agghiacciante, notare come il simbolo del discorso sia solo ed esclusivamente un trattore da 400 cavalli. Più che un discorso agricolo, parrebbe di trovarsi di fronte a una parata della grande industria. Significa ammettere che tutto ciò che mangiamo e di conseguenza siamo debba essere esclusivamente prodotto in serie, con una meccanizzazione totale e disumana in ogni fase della filiera.

 

A nessuno (non ai telegiornali, non alle associazioni di categoria, nemmeno ai “consumatori”) viene in mente di segnalare che l’agricoltura intensiva è solo una parte, forse necessaria e sicuramente maggioritaria, di intendere la produzione di alimenti. L’assioma “contadino = trattore” è ormai radicato nel pensiero dominante, e le proteste di questi giorni, prima ancora che determinare risultati concreti, contribuiscono a portare in luce un immaginario sempre più slegato dalla terra. Eppure, chi si occupa di montagne (intese come spazi alternativi a un sistema economico-produttivo-esistenziale ormai dominante) sa bene che esistono mondi e modi di vivere la "questione agricola" che non vengono minimamente raccontati dai media, se non in termini parziali e stereotipati. Al di là del loro potenziale in termini di de-pressurizzazione demografica e spaziale, il rinnovato interesse verso le cosiddette montagne di mezzo è dovuto soprattutto al loro potenziale in termini di relazione armonica con la terra, nella quale poter esplorare produzioni agricole su scale ridotte, site-specific, coerenti con le peculiarità di un determinato luogo e in continuità con gli immani sforzi condotti dalle generazioni anteriori per addomesticare il paesaggio. Ciò nonostante, il potenziale produttivo racchiuso nelle fasce e nei terrazzamenti d’Italia rimane troppo spesso invisibile anche agli addetti ai lavori.

 

La figura del coltivatore diretto, o peggio ancora, dell’agrosilvopastore che per lunghi secoli ha coniugato competenze diverse, in rapporto con le fasce altimetriche e con le stagioni, è oggi più che mai osteggiata dai sindacati agricoli.

 

A farne le spese è l’agricoltura di montagna. Chi vuole lavorare su fasce e terrazzamenti, chi ambirebbe a tenere 100 pecore in montagna e non 10.000 animali in pianura, chi per produrre quel che serve ha bisogno solo di due decespugliatori e una motozappa è ormai storicamente abituato alla totale assenza di ogni rappresentanza e portavoce.

 

In questo grande vuoto, è curioso e divertente sentir disquisire di "difesa dell'ambiente" chi ha trasformato la pianura padana in un’immensa coltivazione di mais destinata ai maiali. Nella sola Provincia di Cuneo, terra di montagne, montagne di mezzo ma anche pianura, ad una popolazione complessiva di 580.000 abitanti corrispondeva, nel 2023, un totale di 800.000 suini (la media è di 1 maiale virgola 379 per abitante, o di 0,725 esseri umani per suino). Allo stesso tempo, in Provincia di Cuneo, principale polo italiano di produzione di castagne, l’80% dei castagneti giace abbandonato, con evidenti problemi in termini di prevenzione del rischio idrogeologico. Il più grande castagneto delle Alpi Liguri è oggi il Porto di Genova, principale polo d’importazione per frutti che arrivano dall’altra parte del mondo. Dirottare una parte di questi investimenti verso il recupero dei castagneti ultrasecolari oggi agonizzanti lungo la spina dorsale italiana, per esempio, consentirebbe alla terra di essere fonte di reddito per l’economia.

 

Come segnala Mauro Varotto, un territorio “speciale” non necessita di misure di tipo compensativo, ma di politiche adeguate a valorizzarne specificità e diversità. Ben vengano dunque le proteste, a patto che possano tradursi in uno sguardo più ampio e multiprospettico, capace di includere, accanto al trattore, anche il decespugliatore, la permacultura, la motozappa.

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