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Cultura | 07 ottobre | 18:00

Lì dove i briganti cantano ancora: alla scoperta dell'Appennino lontano dai riflettori

La Compagnia dei Cammini ha portato il primo gruppo di persone sul tratto iniziale del Grande Cammino dei Briganti tra Abruzzo e Lazio. Una volta completato, l’itinerario condurrà chi lo percorre sino in Basilicata

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

"Noi siamo ancora un po' briganti, soprattutto lei", dice tra il serio e il faceto la signora che gestisce un piccolo emporio di alimentari nel cuore della Ciociaria più profonda, a Pescosolido, indicando una cliente in attesa di pagare la spesa. E la cliente, più sul serio che sul faceto, annuisce. 

 

Ma i briganti, si sa, prendono e danno. E, per ogni passo che il Grande Cammino dei Briganti prende, quello che dà vale la fatica di averlo compiuto e molto di più.

 

Sono terre aspre e ancora in parte selvagge quelle della prima parte del Grande Cammino, che parte da Sante Marie, nella Marsica abruzzese, e una volta completato arriverà in Basilicata. Un cammino sempre sulle orme dei briganti, come il temutissimo Chiavone, che tra quelle valli e montagne solcate dal volo dei grifoni a volte trovavano rifugio dall'esercito piemontese, dopo l'unificazione d'Italia, mentre altre lo fronteggiavano dandogli non poco filo da torcere. Da non confondere, però, con il Cammino dei Briganti, anche se il punto di partenza è lo stesso.

 

Se oggi sono ancora in tanti tra quelle contrade a dirsi fieramente briganti, allora la vittoria piemontese non deve essere stata poi così schiacciante. E neanche quella del modernismo esasperato, che per tanto tempo ha ignorato quelle aree perché poco "cool", mentre ora smania per trasfigurarle in un Eden immacolato, che è quanto di più lontano dal vero.

Il gruppo "pilota" della Compagnia dei Cammini, di cui ho fatto parte e a metà settembre, ha percorso il tratto del Gran Cammino che va da Tagliacozzo, sempre nella Marsica abruzzese, a Picinisco, versante ciociaro del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. 

 

Essere il primo gruppo a percorrere un nuovo cammino in luoghi lontani dai riflettori dei media mainstream e del turismo di massa vuol dire partire, oltre che con un bel paio di cesoie, anche con un certo carico responsabilità, quella di trovare un sottile e a volte fragile equilibrio tra ciò che si prende e ciò che si dà. 

 

Si entra nelle case di persone che abitano e hanno sempre abitato luoghi dove la vita ancora scorre lenta e scandita dal ritmo delle stagioni, dove una lunga doccia calda non è sempre scontata, dove ancora forte è il senso di rinuncia e sacrificio e dove ogni cosa ha il suo tempo. Il tutto e subito non esiste. Raggiungere un supermercato, una scuola, una farmacia o una struttura sanitaria può richiedere molto tempo, un tempo che il solo fatto di ospitare chi percorre il cammino può comportare una rinuncia per chi apre la propria casa. Una rinuncia fatta per amore dei propri luoghi: basta questo a intuire il valore di ciò che si sta prendendo.

 

Il valore è quello di un ostello nuovo di zecca che viene inaugurato proprio per te dall'associazione di guide del luogo, come nel caso di Balsorano Vecchio, ai piedi del castello Piccolomini che domina la valle Roveto, scavata dal fiume Liri. È anche quello dell'assessore alla cultura del borgo che apre solo per te il castello e commosso racconta gli sforzi della comunità, anche a titolo volontario, per tenere in vita la valle, costellata di ruderi dei borghi distrutti dal terremoto del 1915 (oltre 30.000 morti) sulle pendici delle montagne marsicane, mentre più a valle sorgono gli abitati più moderni ricostruiti in seguito. Il valore è anche quello del vicesindaco di Ridotti, una frazione al confine tra Abruzzo e Lazio, che ti accoglie nel suo ristorante e ti chiede per aver mangiato ciò che lui stesso ha cucinato solo un prezzo simbolico, perché per lui l'importante è già solo che tu sia lì. Non esserci e basta, un po’ come chi torna in quei borghi due o tre settimane all’anno giusto perché lì ha una casa ereditata dai nonni, ma chi ha scelto di recarvisi, anche da luoghi lontani, perché sentiva nel profondo di volerlo fare.

Sono luoghi che si vivono nel qui e ora, con pazienza, non sono la proiezione di sé in una storia su Instagram che cerca di trasporli in una virtualità senza contesto, come se la loro anima antica potesse bruciare in un distratto e fugace "like".

 

"Sempre con questi cellulari in mano!", ci ha bonariamente strigliato la signora che ci ha aperto la propria casa in un giorno di diluvio al confine tra la Marsica e la Ciociaria, a Forcella, dopo essersi fatta trovare con una tavola già imbandita di pietanze di ogni genere preparate in casa con ingredienti portati dal marito, che poco prima ci aveva mostrato la sua campagna, con i suoi trattori, ulivi e vigneti. "Chissà che fine farà questa terra quando non ci sarò più io", si domandava con una lieve ombra di malinconia sul volto, mentre la figlia già immaginava per il futuro di quel luogo un agriturismo. È qui che ci si lascia alle spalle l’asprezza selvaggia della Valle Roveto abruzzese e ci si avvia verso le più dolci colline e i campi della Valle di Comino, nel Lazio. Ad aiutare con l'allestimento della cena anche la nipote più piccola, la terza generazione, pendolare tra la Ciociaria e Roma per poter lavorare, ma al contempo non abbandonare del tutto la sua casa...mai una volta con il cellulare in mano. La mattina dopo, a colazione, la nonna ci ha invitato a non farci ingannare dall’incanto dell'arcobaleno mattutino, poiché annunciava una giornata di pioggia. Così è stato, con buona pace delle app per il meteo.

Sono luoghi d'Italia che spesso si sono dovuti confrontare con l'idea di marginalità: dopo ogni devastante terremoto, dopo ogni ondata di emigrazione, dopo ogni scomparsa di un'infrastruttura cruciale, dopo, dopo e ogni volta dopo. Non è stato sempre così: da fine Ottocento al terremoto del 1915 la Valle Roveto ha attirato pittori scandinavi che, nel borgo di Civita d'Antino, hanno scelto di fondare una scuola di pittura, perché solo lì erano riusciti a trovare quei giochi di luce che la loro anima cercava da tempo e che tuttora attirano turisti e abitanti temporanei da tutto l'estremo Nord dell'Europa. E dove la coppia di gestori dell’Osteria Zahrtmann (intitolata al fondatore della scuola di pittura), veri e propri custodi del borgo, sta cercando di riportarvi alcune tra le opere più importanti degli scandinavi.

 

Ora, anche grazie al Gran Cammino, quei luoghi hanno una nuova possibilità di tornare a essere “al centro” e il miglior modo per iniziare a farli sentire tali è sedersi con coloro che li tengono in vita e ascoltarli, perché è proprio questo ciò che a loro non è mai stato dato, dopo tutto ciò che gli è stato preso. Ascoltarli e raccontare, una volta tornati a casa, che in quei luoghi c'è una nuova idea d'Italia che sta germogliando e che ogni amante dei cammini lenti può contribuire a coltivare. In cambio si riscopre un rapporto più sano (oggi si direbbe "sostenibile") delle persone con se stesse, con la propria comunità e con la natura che le circonda: un modello che oggi avrebbe tanto da insegnare a quello imperante del troppo sempre e del tutto e subito.  E, chi lo sa, magari per qualcuno potrebbero diventare una nuova casa. 

Sul Grande Cammino si potrebbe stilare una classica guida turistica parlando del tartufo di Campoli Appennino, delle pietre lungo il sentiero rivoltate da un orso passato lì poco prima, dei pittori scandinavi, delle fettuccine fatte in case e di tanto altro ancora. Ma l’unico consiglio che possa avere valore è: andate e vivete!

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