Contenuto sponsorizzato
Ambiente | 30 ottobre | 18:00

"La nostra casa è in fiamme" e le nostre strade sommerse dal fango. Il costo dell'inazione climatica è sotto i nostri occhi nelle immagini di Valencia

Valencia in poche ore si è trovata a ricevere il quantitativo di pioggia che solitamente bagna il suo terreno nel corso di un intero anno, provocando danni al momento inquantificabili. L'ennesimo esempio di come non investire nella mitigazione e nell'adattamento al nuovo clima sia fallimentare anche da un punto di vista economico, oltre che ambientale e umano

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

La giornata di oggi, per molti, è iniziata guardando le drammatiche immagini che arrivano da Valencia (in Spagna), che in poche ore si è trovata a ricevere il quantitativo di pioggia che solitamente bagna il suo terreno nel corso di un intero anno. I danni provocati da questo fenomeno sono ancora inquantificabili, ma le immagini e le informazioni che arrivano dalla Spagna, ci permettono di farci un'idea: ciò che si figura nella nostra mente è, indubbiamente, spaventoso. Di fronte a queste scene e mentre sentiamo già i primi scienziati del clima confermarci di come si tratti di un fenomeno legato al cambiamento climatico in atto, torna subito alla mente una frase molto nota: “La nostra casa è in fiamme”. Difficile non averla mai sentita, Thumberg (ma non solo lei) ne ha fatto un suo slogan e l’ha ripetuto per anni. Ed è vero, la nostra casa (il nostro pianeta) è in fiamme (è caldissimo), e, immagino su questo possiamo essere tutti d’accordo, più a lungo rimarrà preda delle fiamme, più difficile e costoso sarà spegnere l'incendio e riparare i danni causati. 

 

Questa metafora, molto usata dall’attivismo, in realtà nella sua semplicità rende perfettamente l’urgenza che i rapporti scientifici delle Nazioni Unite predicano con toni più formali e freddi. Il tempo di agire è ora, è oggi. Qualsiasi ritardo rispetto a un’azione immediata aumenterà in modo inevitabile gli impatti del surriscaldamento globale sul pianeta terra (nella peggiore delle visioni del futuro, fino a raggiungere una situazione così grave da essere irreparabile). 

 

Se state pensando che i toni di questo articolo siano troppo drammatici, andate a leggere qualche discorso dei leader dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, o degli enti addetti al cambiamento climatico all’interno delle Nazioni Unite. Scoprirete che esattamente questi sono i toni con cui i massimi esperti del pianeta sul clima si rivolgono ai rappresentanti dei governi e delle istituzioni di tutto il globo. 

 

Tra i motivi che portano le persone che sanno cosa sta succedendo a comunicare e sottolineare questo senso di urgenza c’è una questione che spesso passa in secondo piano (o non compare per nulla all’interno della discussione) che è quella dei costi della crisi climatica e in particolare dei costi dell’inazione nei confronti di essa.

 

Non agire ora sui cambiamenti climatici comporterà costi maggiori in futuro, e questo è ciò che definiamo "il costo dell'inazione". E' anche vero che questi costi possono essere difficili da quantificare, perché dipendono formente dallo scenario climatico che effettivamente si andrà a realizzare in futuro. Infatti, questo tema che si interseca con il fatto che gli impatti del cambiamento climatico dipenderanno da come agiamo oggi e dalle politiche che scegliamo di implementare: per questo motivo parliamo di un ventaglio di possibili scenari futuri.

 

Tuttavia, dare un prezzo a ogni anno di ritardo nell'azione per il clima è fondamentale per far comprendere all'opinione pubblica e ai decisori politici la portata e l'urgenza della crisi climatica. Infatti, cifre concrete possono guidare l’azione politica in modo efficace, confutando l'idea miope che l'azione per il clima sia troppo costosa. Perché, in realtà, è l'inazione ad essere molto più costosa.

 

Come si legge nell’ultimo rapporto pubblicato dalla Climate Policy Initiative, nel 2021 e nel 2022 sono stati spesi 1.300 miliardi di dollari all'anno in finanziamenti globali per il clima. Che è una buona notizia, perché si tratta del più grande volume di questo tipo di flussi fino ad oggi, e di quasi il doppio rispetto al biennio precedente, però è anche vero che non è abbastanza. Infatti, dobbiamo aumentare questo importo di almeno cinque volte all’anno, ogni anno: secondo le stime del gruppo di lavoro, la quantità di finanziamenti per il clima per garantire che le temperature globali non superino il grado e mezzo di riscaldamento (la “stella polare” di cop29) è compreso tra 5,4 e 11,7 trilioni di dollari all'anno fino al 2030 e tra 9,3 e 12,2 trilioni di dollari all'anno nei due decenni successivi (nota a margine, per ripassare: un trilione vuol dire mille miliardi, ndr).

 

Il punto fondamentale di questo discorso è che questo fabbisogno, nonostante sia estremamente elevato, è comunque inferiore all'aumento dei costi sociali ed economici che dovremo sostenere in scenari di riscaldamento cosiddetti business as usual (ovvero: non facciamo nulla per cambiare lo stato delle cose), che secondo le stime del medesimo ente ammontano ad almeno 1.266 trilioni di dollari e che non potranno che peggiorare. 

 

Se vi state chiedendo da cosa originano questi costi, oltre al fatto che sicuramente non vi siete trovati ad affrontare in prima persona le alluvioni dell’Emilia Romagna, la risposta tecnica è che deriverà principalmente dalle ondate di calore, dagli episodi di stress termico estremo e dalle precipitazioni estreme. Su queste ultime, uno studio pubblicato dall’ETH di Zurigo stima che il loro impatto potrebbe ridurre il pil globale, in media, dello 0,2%, cioè 200 miliardi di dollari. Se il riscaldamento continuasse verso lo scenario emissivo associato alle emissioni attuali, il Pil globale diminuirebbe fino del 10% (sempre secondo il medesimo studio). Al contrario, uno sforzo collettivo per limitare il riscaldamento globale a un grado e mezzo potrebbe ridurre di due terzi i costi globali associati ai suoi impatti.

 

Focalizzandoci sul continente europeo, e facendo riferimento agli ultimi documenti dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, del Fondo Monetario Internazionale, dell’Agenzia Europea dell’Ambiente e della Commissione Europea, possiamo dire che negli scenari più ottimistici (cioè, quelli che prevedono il nostro mantenerci entro i 1.5°C di surriscaldamento) l’Italia potrebbe sperimentare una crescita della temperatura vicina ai 3°C entro il 2050, con degli impatti devastanti su settori come agricoltura, salute, sistemi finanziari e assicurativi, spesa pubblica e entrate fiscali, senza considerare l’aumento degli eventi climatici estremi, come alluvioni e ondate di calore anomalo, che genereranno danni crescenti alla popolazione e alle imprese del nostro Paese, ben superiori ai 20 miliardi di euro del periodo 2013-2019. 

 

Tutti gli studi mostrano che il costo dell’inazione si scarica già oggi e si scaricherà ancor più nel futuro specialmente sui più poveri e vulnerabili, proprio a causa della mancanza di mezzi economici a loro disposizione per fronteggiare i danni della crisi climatica: Deloitte stima, per esempio, che i costi dell’inazione possono raggiungere i 178 trilioni di dollari entro il 2070.

 

Ecco, per contestualizzare la scelta del termine “inazione” e soprattutto per supportarla con gli ultimi dati disponibili, riporto delle informazioni comunicate proprio ieri dall’Organizzazione Mondiale della Meteorologia. Nel comunicato si legge: “L'ultima volta che la Terra ha registrato una concentrazione di anidride carbonica paragonabile è stato 3-5 milioni di anni fa, quando la temperatura era più calda di 2-3°C e il livello del mare era più alto di 10-20 metri rispetto ad oggi”. Parliamo di inazione perché questo rapporto, appena uscito, conferma che: “La concentrazione superficiale di anidride carbonica mediata a livello globale ha raggiunto le 420,0 parti per milione, pari al 151% dei livelli preindustriali, il metano è salito a 1.934 parti per miliardo, pari al 265% dei livelli preindustriali e infine il protossido di azoto ha raggiunto 336,9 parti per miliardo, pari al 125% dei livelli preindustriali”. Questi numeri e queste percentuali ci dicono una cosa sola: non stiamo facendo abbastanza e soprattutto non stiamo investendo abbastanza. 

 

Da ultimo, una nota: i costi del mancato intervento sulla questione climatica, del mancato investimento sulle strategie di mitigazione e adattamento, non sono solamente economici, ma anche umani e ambientali. Al momento della scrittura di questo articolo le vittime dell'alluvione a Valencia sono 62.

SOSTIENICI CON
UNA DONAZIONE
Contenuto sponsorizzato
recenti
Cultura
| 21 gennaio | 08:15
Durante il discorso di insediamento, ha promesso che il monte Denali (con i suoi 6190 metri d'altezza il più alto del Paese) tornerà a chiamarsi come stabilito nel 1917. Ecco i motivi
Idee
| 21 gennaio | 06:00
Promosso dal gruppo di lavoro Terre Alte del Comitato Scientifico Centrale del Club Alpino Italiano e giunto nel 2025 alla quarta edizione, il premio chiede alle sezioni CAI di segnalare figure emblematiche nel preservare saperi e tradizioni dei paesi montani
Ambiente
| 20 gennaio | 19:19
 Specialmente tra la dorsale abruzzese e quella umbro marchigiana abbiam vissuto dei valori termici davvero molto bassi, con temperature che a 2000 metri hanno sfiorato anche i -12°C. Nel video siamo sul Vettore (Parco Nazionale dei Monti Sibillini immortalato da Paoloantonio D’Ettorre)
Contenuto sponsorizzato