(IL VIDEO) Capriolo risale a nuoto il fiume perché bloccato dalla diga. 'Salvare' un selvatico o no? Ecco come bisogna comportarsi
L'episodio di un capriolo bloccato nella Gola del Furlo, dopo essere sceso ad abbeverarsi a breve distanza dalla diga, invita capire come bisogna comportarsi nel caso in cui ci si dovesse imbattere in un animale in difficoltà

di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Il fiume Candigliano, lama d’acqua color smeraldo, con il suo incedere ha nei secoli eroso le pareti calcaree del monte Pietralata e del monte Paganuccio, andando a modellare un paesaggio singolare, dai riverberi “verdoniani”.
La Gola del Furlo si trova nelle Marche ed è percorsa da quello che era il tracciato originario della via Flaminia. Per agevolare il passaggio di persone e veicoli fu fatta scavare, dall'imperatore Vespasiano, una galleria nel punto più stretto della gola, detta "forulum" (piccolo foro), da cui appunto "Furlo".
Accanto alla strada, il Candigliano scorre placido perché dal 1922, al termine della gola, il suo andamento è rallentato una diga di 59 metri. Proprio qui, ai margini della diga, la settimana scorsa sono stato spettatore di quello che per me e per la mia scarsa conoscenza delle dinamiche faunistiche, è stato un fenomeno inedito.
Mentre attraversavo la Gola in bicicletta, all’altezza della diga ho avvistato un capriolo scendere ad abbeverarsi. Da una rampa di cemento è saltato su un ammasso di tronchi bloccati dalla chiusa e accatastati dalla corrente sul lato destro del fiume. Questi, a mo’ di zattera, lo sostenevano mentre, con grande quiete, sorseggiava.
Il suo fare mite faceva rientrare quell’operazione in un’apparente ordinarietà. Apparente perché, una volta dissetatosi, il capriolo ha provato con scarso successo a risalire la rampa: un salto, qualche raschiata agli zoccoli sul cemento pressoché verticale, e poi giù, trascinato nuovamente sulla zattera dalla forza di gravità. Al quarto o quinto tentativo fallito ha dato le spalle alla diga e si è tuffato in acqua.
“Ecco, adesso cola a picco!”, ho pensato tra me e me, già convinto di vederlo affogare e, ormai emotivamente coinvolto, ho provato ad avvisare il Nucleo dei Carabinieri Forestali della zona che, probabilmente già impegnato, non ha risposto alla chiamata.
Nel mentre, e con grande e inaspettata abilità, l’ungulato ha iniziato a nuotare controcorrente. Solo a quel punto ho iniziato a filmarlo. In pochi minuti ha risalito due/trecento metri di fiume finché le verticalità rocciose non hanno lasciato spazio a un’esile radura boschiva, dove il capriolo si è infilato scomparendo alla vista.
Questo episodio (ma soprattutto la mia impreparazione) ha stimolato l’esigenza di inserire quanto osservato in un quadro ambientale più ampio e consapevole e, soprattutto, di capire come bisogna comportarsi in situazioni analoghe. Ho quindi chiesto a Francesca Roseo - che per L’AltraMontagna approfondisce i rapporti di convivenza tra essere umano e fauna selvatica - di proseguire, riportando alcuni accorgimenti da considerare nel caso in cui ci si dovesse imbattere in un animale in difficoltà.
Cosa fare?
L’episodio del capriolo del Furlo stimola immediatamente una domanda: come bisogna comportarsi se troviamo un animale selvatico in difficolta? Va ricordato prima di tutto che la detenzione della fauna selvatica è vietata dalla legge 157/92 e che l’animale se trovato ferito deve essere consegnato a un ente autorizzato e competente per il soccorso dell’animale entro 24h. Nelle righe che seguono capiremo perché.
Può capitare, sia in montagna che in città, di trovare un animale selvatico in apparente difficoltà ed è bene per la propria sicurezza e quella dell’animale conoscere il protocollo da seguire in queste situazioni. Come ci suggerisce la logica non bisognerebbe mai agire d’istinto ma, al contrario, dovremmo sempre valutare attentamente la situazione e chiedersi se è davvero necessario prestare soccorso. In alcuni casi il nostro intervento, per quanto mosso dalle migliori intenzioni, può recare un danno enorme all’animale che vorremmo aiutare.
Per esempio, i piccoli di molte specie di uccelli escono dal nido che non sanno ancora volare, e passano un breve periodo a terra sviluppando la muscolatura alare sotto il controllo dei genitori che continuano a nutrirli (un po’ come i bambini, che passano una fase di gattonamento prima di imparare a camminare). Questo discorso non vale però per i piccoli di rondone, rondine e balestruccio, ma potete trovare a questo link una breve guida da seguire quando si trova un uccellino a terra. Nel caso dei cuccioli di mammifero la situazione è ancora più complessa: basta infatti toccare il piccolo una sola volta per imprimere il proprio odore, il che in molti casi può portare all’abbandono del piccolo da parte dei genitori.
Capita però spesso che le persone raccolgano questi piccoli pensandoli in una situazione di pericolo, decidendo di svezzarli autonomamente. Questo è un comportamento che dovrebbe essere totalmente disincentivato poiché la formulazione mangimistica da somministrale ad ogni specie è complessa e variegata. Per questo e altri motivi bisognerebbe sempre chiamare il centro di recupero più vicino per valutare assieme se intervenire o meno.

Tenersi a debita distanza prima di intervenire è fondamentale per mettere anche se stessi in sicurezza. Possono infatti verificarsi delle situazioni per le quali l’intervento è necessario, come nel caso di animali feriti con segni di sangue o arti rotti, intrappolati o in visibile stato di malessere che può presentarsi come apatia o tremori. Anche in questi casi bisognerebbe sempre contattare immediatamente le autorità competenti (Centri di Recupero della Fauna Selvatica, Corpo dei Carabinieri Forestali, Guardia Caccia, guardie Venatorie o Zoofile Provinciali, Veterinari, Vigili del Fuoco o Urbani) tutti rintracciabili chiamando il numero di emergenza unico europeo 112. Intervenire di persona è altamente sconsigliato: gli animali selvatici feriti che si trovano in una situazione di forte stress possono infatti reagire d’istinto mordendo, graffiando, calciando o colpendoci con il palco o gli artigli, e qualora manipolati senza la corretta attrezzatura possono trasmettere anche malattie infettive.
L’ultima importante raccomandazione da tenere bene a mente è prettamente etica: la fauna selvatica non deve essere mai confusa per addomesticabile. L’atto di cura e amore più nobile che le persone possono avere nei confronti degli animali selvatici è garantirgli la libertà. Vale la pena ricordare che gli animali domestici - come il cane, la mucca, il cavallo, la pecora - hanno subito un processo di domesticazione avvenuto nel corso di migliaia di anni che ha permesso di fissare alcuni geni rendendo così questi animali più docili e tolleranti alla presenza delle persone. Secondo Price e King (1968) infatti “la domesticazione è un processo evolutivo che comporta l’adattamento genotipico di animali all’ambiente di detenzione”. Questo processo molto lungo ha quindi permesso di creare rapporti di interdipendenza senza però nuocere alla salute degli animali. Lo stesso non vale per gli animali selvatici, che sono ammaestrabili ma non domesticabili, e qualora detenuti in cattività in un ambiente domestico/casalingo non potranno manifestare i loro comportamenti naturali portando così l’individuo a subire un forte stress. Il comportamento animale non dovrebbe mai essere guardato con la lente umana, ma sempre e solo attraverso quella della specie che abbiamo di fronte, che sarà diversa da tutte le altre.