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Ambiente | 15 febbraio | 18:00

"Il pellet inquina più di petrolio e carbone": ma è vero quanto sostiene Repubblica Green&Blue?

Su Repubblica Green&Blue è stato pubblicato un articolo il cui titolo non poteva passare inosservato: “Il pellet inquina quasi tre volte più di petrolio e carbone”. È davvero così? No, la realtà è molto più articolata. Proviamo a mettere un po’ di ordine, per fare chiarezza su un tema complesso che rischia di generare facili incomprensioni

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Lo scorso 13 febbraio su Repubblica Green&Blue è stato pubblicato un articolo il cui titolo non poteva passare inosservato: “Il pellet inquina quasi tre volte più di petrolio e carbone”. Titoli simili sono apparsi anche su altre testate minori nelle scorse settimane, citando oltre al pellet anche la legna da ardere e il cippato (scaglie di legno ad uso energetico). 

 

Davvero le “biomasse legnose”, considerate a tutti gli effetti energie rinnovabili anche dalla normativa europea REDIII di recentissima emanazione, sarebbero più inquinanti, addirittura, di due tra le fonti fossili più nel mirino della lotta al cambiamento climatico? Se la domanda sorge spontanea, la risposta è decisamente più complessa rispetto a quel titolo così forte di Repubblica. Proviamo a mettere un po’ di ordine per fare chiarezza.

 

Innanzitutto, è necessario sottolineare che gli articoli usciti in questi giorni derivano da una recente ricerca condotta da scienziati dell'Institute for the Environment dell'Università del Nord Carolina e pubblicata sulla rivista scientifica Renewable Energy. I dati su cui si basa lo studio, è fondamentale evidenziarlo, sono relativi alla sola situazione statunitense, un modello di produzione e consumo molto differente rispetto a quello europeo. Lo studio stima, senza misure dirette ma attraverso vari dati di letteratura incrociati tra loro, l’inquinamento atmosferico causato da una serie molto ampia di fattori: dagli impianti industriali per la produzione di pellet ai vari apparecchi che utilizzano legno (non solo pellet) per produrre energia, sia termica (calore) che elettrica.

 

Su questo è necessaria una seconda, importante, precisazione. Per tanti, infatti, la parola “inquinamento” può essere equivoca. Come viene brevemente spiegato nell’articolo di Repubblica, un conto è l’inquinamento dell’aria, provocato dal cosiddetto “particolato” e dagli inquinanti gassosi come gli ossidi di azoto e di zolfo, che vengono prodotti dalla combustione del legno. Un altro conto è invece l’emissione di gas climalteranti, principalmente CO2. Il legno, quando brucia, emette sia particolato e inquinanti gassosi, sia la CO2 che è stata assorbita durante la vita degli alberi da cui deriva. Questo distinguo non è affatto banale come sembra; al contrario, è fondamentale per contestualizzare meglio le affermazioni dell’articolo.

 

 

Dipende

 

Il particolato generato dalla combustione di biomasse è a tutti gli effetti un problema serio per la qualità dell’aria, ma lo si può combattere in modo molto efficiente con apparecchi termici moderni e altamente performanti. Ad esempio, per 1 GJ di energia prodotta, si arrivano a produrre quasi 500 g di polveri sottili nelle stufe tradizionali e meno 50 g in stufe a pellet moderne ed efficienti, valore che è ben al di sotto dei limiti di legge. Di conseguenza, titolare che il pellet inquina molto di più di petrolio e carbone senza specificare di che tipologia di impianti si sta parlando è già di per sé molto fuorviante. 

 

Per quanto riguarda le emissioni di CO2 è invece necessario sottolineare come quella prodotta dalle biomasse sia “CO2 biogenica”, parte del ciclo naturale del carbonio. Quella emessa da petrolio e carbone è al contrario “CO2 fossile”, la principale causa dell’alterazione degli equilibri planetari che hanno portato alla crisi climatica. Certo, anche per produrre biomassa si emette CO2 fossile, ad esempio tramite i mezzi che movimentano il legname o gli impianti che lo trasformano. È quindi lecito chiedersi se “il gioco vale la candela”.

Su questo, l’ultimo rapporto IPCC - Intergovernmental Panel on Climate Change (in una frase citata anche nella premessa dello studio statunitense), è molto chiaro: “L’impiego della bioenergia può portare ad un aumento o a una riduzione delle emissioni a seconda della portata dell’impiego, della tecnologia di conversione, del combustibile sostituito e di come e dove viene prodotta la biomassa”.

 

Quindi, in definitiva… dipende! L’inquinamento dell’aria dipende tantissimo dagli apparecchi che trasformano le biomasse in energia; le emissioni di gas climalteranti dipendono enormemente da quanto, come e dove la biomassa è utilizzata. Con tutti questi “dipende” il titolo di Repubblica, così netto e inequivocabile, appare davvero fuori luogo. Forse sarebbe stato più utile porre quantomeno una domanda: “In USA il pellet inquina più di petrolio e carbone. Ma da noi?”

 

 

In Europa e in Italia

 

Per meglio contestualizzare la ricerca statunitense si sarebbero potuti citare altri studi scientifici, condotti a livello europeo, che hanno analizzato l’intero ciclo di vita della filiera energetica del pellet, inclusa la produzione del biocombustibile secondo il modello attuato in Europa e inclusi tutti gli impatti sull’ambiente (comprendenti sia le emissioni nocive della combustione, sia le emissioni climalteranti). Questi studi (molto completo, ad esempio, quello di Monteleone et al., 2016) confrontando l’intero ciclo di vita del pellet utilizzato in moderne caldaie con quello di gasolio e gas naturale, hanno dimostrato un impatto complessivo sull’ambiente di questo biocombustibile di 4-5 volte inferiore rispetto ai combustibili fossili

 

Si sarebbe potuto analizzare meglio anche il contesto italiano, dove i problemi certo non mancano. Come dimostra l’inventario nazionale delle emissioni di ISPRA, le tecnologie di combustione tradizionali delle biomasse, decisamente obsolete, rappresentano ancora il 70% del parco installato nel nostro Paese e, da sole, sono responsabili del 90% del particolato proveniente dal riscaldamento a biomasse legnose. Ma grazie al turnover tecnologico, in atto negli ultimi anni anche grazie a specifiche politiche e incentivi, l'inquinamento dell'aria provocato dalle biomasse sta drasticamente calando (-40% dal 2010 al 2022 secondo l’ultimo Report di AIEL - Associazione Italiana Energie Agroforestali.   

 

Contestualizzando meglio lo studio americano e focalizzando l’attenzione sulla situazione europea e italiana si sarebbe potuto spiegare che la sostenibilità complessiva delle biomasse legnose, sia a livello di inquinamento dell’aria che a livello climatico, dipende da molti fattori concatenati tra loro, come in parte cerca spiegare Ettore Guerriero, ricercatore del CNR intervistato nel pezzo di Repubblica. 

 

Come sottolinea il recente “position paper” del Tavolo di Filiera Foresta Legno istituito presso il Masaf, gestione forestale sostenibile, filiere corte e locali, approccio “a cascata” nell'uso del legno (destinare a combustibile solo gli scarti) e sostituzione dei vecchi impianti con apparecchi moderni ed efficienti, possono rendere pellet, legna da ardere e cippato molto più sostenibili e molto meno inquinanti di petrolio e carbone.

 

“Lo studio statunitense è interessante perché mostra come sia importante esaminare bene gli impatti anche delle soluzioni apparentemente innocue, non solo quelli ambientali ma anche sociali, come evidenziato riguardo alle diseguaglianze tra chi è più esposto ai fumi emessi dagli impianti di pellettizzazione negli USA”, spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore forestale dell’Università di Milano a L’AltraMontagna, “Ma le stesse disuguaglianze riguardano in modo ancora più intenso gli impatti dei cambiamenti climatici causati dal nostro utilizzo di combustibili fossili. Conosciamo le condizioni in cui il legno può sostituire i materiali e le energie fossili contribuendo a ridurre le emissioni totali, sappiamo che ciò non avviene sempre, ma siamo in grado di progettare e promuovere filiere corte, a cascata, e controllare i problemi relativi all'inquinamento atmosferico in un modello di produzione ben diverso da quello americano e più adatto alle nostre aree interne”.

 

In conclusione, se il modello statunitense è davvero così profondamente sbagliato, come sembra evidenziare lo studio citato da Repubblica e da altri quotidiani, la chiave di volta è da ricercare in un modello alternativo, che per fortuna in parte d’Europa esiste e che andrebbe incentivato e costantemente migliorato.

La soluzione non passa certo dal perseverare nell’utilizzo di petrolio e carbone.

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