L'infografica dell'Apss sulla bomba nucleare su Trento è davvero tanto assurda? Ecco perché la risposta è ''no''


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Marco Pertile, professore di Diritto internazionale dei conflitti armati
Una scheda informativa dell’Azienda Provinciale per i servizi sanitari (APSS), redatta in collaborazione con l’Associazione italiana di Epidemiologia, prevede il collasso del sistema sanitario qualora un ordigno nucleare di medio potenziale esploda sulla città di Trento. La scheda spiega che i morti sarebbero circa 55000 e che i feriti sarebbero poco meno. Emerge in sintesi l’incapacità del sistema sanitario trentino (come di ogni sistema sanitario) di affrontare un’emergenza di questo tipo. Per intenderci, i posti letto per grandi ustionati sono attualmente, secondo la scheda, 137 in tutta Italia. I posti letto disponibili dopo l’esplosione vengono stimati in 1200 (occupati per circa due terzi). La scheda sottolinea che a fronte di una minaccia come questa l’unica soluzione è “il disarmo nucleare internazionale”.
La pubblicazione della scheda, a cura dell’Osservatorio epidemiologico del Dipartimento di prevenzione, è stata accolta con stupore nel dibattito pubblico. Questo quotidiano ha titolato definendo “assurda” l’infografica. Un esponente politico locale ha criticato le “priorità” dell’Azienda Sanitaria sostenendo che la stessa meglio farebbe ad occuparsi delle liste di attesa per le ordinarie prestazioni sanitarie. Se un ordigno nucleare ci cadesse in testa – ha sostenuto – verrebbe voglia di “fumarsi un sigaro”.
Ma è davvero così assurdo questo interesse di un’azienda sanitaria e dei medici per l’ipotesi di un’esplosione nucleare a Trento? Credo proprio di no.
Come sanno le forze armate, le forze dell’ordine, i vigili del fuoco, così come i volontari della protezione civile e della Croce Rossa, prepararsi alla reazione rapida in caso di una contaminazione NBCR (nucleare, batteriologica, chimica, radiologica) è una componente fondamentale della formazione. Esistono al riguardo, nei vari Paesi, piani di reazione rapida che individuano una catena di comando, l’attribuzione delle responsabilità per l’intervento e le modalità operative in coordinamento con tutti gli attori potenzialmente coinvolti. Anche i medici devono essere preparati. Si pensi, solo a titolo di esempio, ai problemi posti dalla contaminazione di un elevatissimo numero di persone, dalla decontaminazione del personale sanitario o dalla necessità di dotazioni ed equipaggiamenti protettivi.
La necessità di una risposta rapida e coordinata a eventi eccezionali è oggetto anche delle norme del diritto internazionale. Il Regolamento Sanitario Internazionale del 2005, uno strumento vincolante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ratificato dall’Italia, prevede che gli Stati membri debbano dotarsi di piani di emergenza e debbano sviluppare alcune capacità di base (core capacities) di preparazione e reazione alle emergenze pubbliche di rilievo internazionale. Si tratta di obblighi del tutto analoghi a quelli che il nostro Paese aveva – gravemente inadempiente – in risposta alla pandemia da Covid-19. Dal 2005, infatti, un emendamento al Regolamento sanitario dell’OMS ha chiarito che per “malattia” si intende una “condizione medica, indipendentemente dall'origine o dalla fonte, che presenta o potrebbe presentare un significativo danno all'uomo”. Secondo l’OMS sussistono quindi, rispetto ad una detonazione nucleare, obblighi simili a quelli di gestione di un’epidemia infettiva da Covid-19.
Anche l’Organizzazione internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) deve assistere in questa materia gli Stati membri in base alla Convenzione sull’assistenza in caso di incidente nucleare o di emergenza radiologica del 1986 (ratificata dall’Italia). L’Organizzazione si è occupata della questione adottando nel 2007 delle linee guida sulla reazione alle emergenze nucleari e radiologiche. Le linee guida prevedono nuovamente l’adozione di piani di emergenza a livello nazionale che devono poi essere precisati proprio dalle istituzioni locali.
È fuor di dubbio quindi che esista una competenza dell’APSS e del personale sanitario nella gestione di un’emergenza nucleare. Secondo un rapporto del 2018 dell’Unione Europea, peraltro, il nostro Paese sarebbe tra i più impreparati in Europa (penultimo) nella reazione agli eventi NBCR. L’importanza di trattare i rischi posti dalle armi di distruzione di massa anche a livello sanitario è testimoniata, storicamente, da un continuo interesse dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Associazioni dei medici epidemiologi. Già nel 1994 l’OMS aveva richiesto alla Corte internazionale di Giustizia un parere sulla liceità dell’uso delle armi nucleari, con un quesito poi riproposto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Questo interesse è ancor più giustificato ora che la minaccia nucleare, solitamente relegata all’ipotesi dell’attacco da parte di gruppi terroristici non statali, rientra negli scenari di una guerra interstatale nel cuore dell’Europa. In questi mesi assistiamo infatti alla riproposizione delle peggiori minacce della guerra fredda e alla banalizzazione del discorso sul nucleare. Dopo aver scatenato una guerra di aggressione contro un Paese vicino, la Federazione russa, un membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, minaccia di ricorrere al proprio arsenale nucleare. Alcuni esperti discutono sui media di “nucleare tattico” o di “nucleare a basso potenziale” veicolando l’idea sbagliatissima che esistano casi in cui l’uso dell’arma nucleare può avere effetti trascurabili sulla popolazione civile. Forse non tutti ricordano che il nostro Paese, con ogni probabilità, è il membro della NATO che ospita sul proprio territorio il maggior numero di ordigni nucleari statunitensi (presenti proprio nel Nord Est). In caso di attacco russo è facile prevedere che le basi militari nel territorio dei Paesi membri dell’Alleanza divengano obiettivi di primaria importanza.
Se la minaccia è così grave e irrisolvibile, si obietterà, che senso ha preoccuparsene? È senz’altro vero che la scheda predisposta da APSS non ha una precisa dimensione operativa, mirando in primo luogo a svolgere una funzione pedagogica. In caso di attacco nucleare – è la conclusione a cui si giunge – rendere più efficiente il sistema sanitario non ci proteggerebbe adeguatamente dai rischi. Diversamente, dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, altre regioni italiane hanno integrato le loro scorte di pastiglie di iodio, ma si tratta di iniziative che appaiono del tutto velleitarie in caso di attacco nucleare.
Nonostante la grande complessità di questa materia, credo che la scelta di rinunciare a informare la popolazione sul rischio nucleare sia frutto di una scorciatoia mentale illogica. Proprio delle minacce più pericolose dobbiamo occuparci con urgenza, cognizione di causa e raziocinio. Quanto maggiore è il rischio a cui siamo esposti, tanto più cruciale è prenderne coscienza per debellarlo senza alcuna rassegnazione. È davvero folle, in altre parole, credere nelle possibilità di perseguire il disarmo nucleare o lo è, piuttosto, trascurare un problema esistenziale considerandolo irrisolvibile? Se una minaccia comportasse la distruzione dell’umanità non dovremmo forse affrontarla con la massima determinazione? Nulla vieta di occuparsi contestualmente del grave problema delle liste di attesa.