
Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Umberto Tulli, professore di storia contemporanea
Henry Kissinger è morto solo pochi mesi dopo aver compiuto 100 anni. I numerosi elogi per il celebre accademico-statista-diplomatico che si sono succeduti prima per il suo compleanno e poi per la sua morte hanno tutti indicato come la sua vita abbia attraversato e intrecciato quello che, da più parti, è stato definito come il secolo americano: dagli orrori del nazifascismo, da cui fuggì come giovane rifugiato ebreo tedesco, alla Guerra fredda, cui seppe dare un’impronta come studioso e come policy-maker; dall’ascesa della Cina fino alle guerre globali contro il terrorismo. La sua infinita produzione scientifica e polemica ha abbracciato questi ed altri temi, ispirando vaste legioni di appassionati di storia e politica internazionale, oltre che un numero impressionante di personalità politiche in tutto il mondo (come il Presidente cinese Xi Jinping, quello francese Emmanuel Macron, o la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni), a celebrarlo come uno dei più autorevoli politici e commentatori del Novecento ed oltre.
Egualmente numerosi, se non di più, sono gli studiosi che tendono a “demitizzare” Kissinger. “Se c'è una sola parola che userei per Kissinger è sopravvalutato. Era sopravvalutato come studioso […] Era sopravvalutato come stratega […]. È stato sopravvalutato anche come criminale”. È questo il giudizio che di Henry Kissinger ha dato qualche giorno fa David Greenberg, rinomato storico della Rutgers University. E con lui, sono numerosi gli studiosi che sollevano dubbi sulle reali doti del Consigliere per la sicurezza nazionale, poi Segretario di Stato, nelle amministrazioni di Richard Nixon e Gerald Ford.
Quello che è certo è che il giudizio sul suo operato e la sua eredità politica sono complicate e per nulla lineari. Kissinger è stato, innanzitutto, un intellettuale della e nella Guerra fredda che, dalla posizione privilegiata del professore di relazioni internazionali ad Harvard, ha saputo cavalcare le mode intellettuali del momento (dalla possibilità di combattere e vincere una guerra nucleare limitata negli anni ’50, al dialogo con Urss e Cina negli anni ’70, fino ad arrivare al suo sostegno per l’invasione americana dell’Iraq dopo il 2003). Le sue posizioni di critico benevolo delle scelte di politica estera compiute dalle varie amministrazioni tra anni ’50 e ’60 gli valsero diversi incarichi di consulenza per think tanks (come la RAND Corporation, il Council on foreign relations o la Fondazione Rockefeller) sino ad arrivare alla nomina a Consigliere per la sicurezza nazionale nel 1969 e, successivamente, Segretario di Stato.
Forte di un rapporto privilegiato con il Presidente Nixon, seppe gestire la politica estera americana e sviluppare una narrazione del suo operato come di colui che doveva insegnare le dure leggi della politica internazionale agli americani ed eradicare quell’ideologia liberale e wilsoniana che aveva portato gli Stati Uniti ad abbracciare grandi cause. Proclamandosi campione di realismo politico, contribuì al dialogo con i sovietici, a definire una exit strategy dal Vietnam, a compiere una prima apertura verso la Cina popolare. Tuttavia, in ognuno di questi tre grandi successi diplomatici, il contributo di Kissinger è stato, quanto meno, controverso. Le basi della distensione con l’Urss erano già state gettate dalle amministrazioni di John F. Kennedy e di Lyndon B. Johnson; la sua exit strategy dal Vietnam ha causato migliaia di morti in Cambogia e Laos, oltre che nello stesso Vietnam. Anche l’apertura diplomatica alla Cina fu frutto più di un’iniziativa del Presidente Nixon che di Kissinger. Su questo punto, Kissinger era riluttante e scettico, tanto che, dopo un incontro alla Casa Bianca in cui Nixon aveva ribadito la sua determinazione ad aprire un dialogo con la Cina, Kissinger confidò ad Alexander Haig, allora suo vice, che il presidente “era distaccato dalla realtà” per avergli ordinato di “rendere concreto questo volo di fantasia”.
A fronte di questi successi controversi, pesano fallimenti e azioni spregiudicate. Il sostegno a Pinochet nel Colpo di Stato contro il governo democratico di Salvador Allende in Cile, l’indifferenza (se non addirittura il sostegno) verso le politiche di genocidio in Cambogia, nel Bangladesh (allora Pakistan Orientale), o a Timor Est dopo l’invasione indonesiana, la sua insofferenza verso il controllo del Congresso sulla politica estera americana, la mai celata indifferenza verso il problema dei diritti umani nel mondo (che egli definì un “nonsense sentimentale”), un atteggiamento di negligenza – se non addirittura ostilità – verso l’integrazione europea e le richieste degli alleati, una limitata comprensione delle questioni dell’economia internazionale non furono solamente indicatori di come Kissinger fosse più attento al mantenimento dell’ordine internazionale che alla promozione di un sistema più equo e giusto, ma anche dei limiti e – per dirla con lo storico Mario Del Pero – dell’eccentricità del suo realismo politico: un realismo che si è scontrato, ad esempio, con la sua totale adesione al feticcio della credibilità della politica estera americana, in nome della quale non era possibile disimpegnarsi dal Vietnam o, trent’anni dopo, dall’Afghanistan e dall’Iraq perché con il loro intervento gli Usa avevano creato un interesse e quindi messo in discussione la loro stessa credibilità.
Messo in un angolo alla Convention del partito repubblicano del 1976 e rinnegato alle elezioni dello stesso anno, Kissinger è tornato alla ribalta negli anni successivi, offrendo consulenze a numerose amministrazioni, pubblicando libri (poi tradotti in numerose lingue), o commentando su giornali e alla televisione i principali avvenimenti di politica internazionale. Forte di un’aurea di mistero e presunta saggezza, che era emersa già negli anni ’60, Kissinger ha coltivato questa sua immagine negli anni, ha contribuito a costruire il suo mito e ad ispirare dibattiti accesi sul suo operato e sulla sua eredità. Dibattiti che sembrano destinati a continuare nei prossimi anni