Il Sudan precipita verso la guerra civile: dai ''diavoli a cavallo'' di Hemedti alla Sudan Armed Forces di Al-Burhan ecco cosa sta succedendo


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Sara de Simone, assegnista di ricerca presso la Scuola di Studi Internazionali
Dopo mesi di tensione crescente, il “matrimonio di convenienza”, come è stato definito da più parti, tra Abdel Fattah Al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti, rispettivamente presidente e vice-presidente del Sudan, sembra essere terminato. Dalla mattina del 15 aprile, le Sudan Armed Forces (SAF), sotto il comando di al-Burhan, e le Rapid Support Forces (RSF), una milizia paramilitare controllata da Hemeti, si scontrano nel cuore del paese, nel centro storico di Khartoum e della sua città gemella situata sulla sponda opposta del Nilo, Omdurman.
Gli scontri, inizialmente concentrati attorno ad alcune infrastrutture chiave di Khartoum (l’aeroporto, il palazzo presidenziale, la televisione di stato) e all’aeroporto militare di Merowe, si sono rapidamente diffusi ad altre aree del paese tra cui il Darfur, il Kordofan del Nord e la zona di Port Sudan, senza risparmiare nemmeno le organizzazioni umanitarie e il personale diplomatico.
Al-Burhan ed Hemedti, entrambi fedelissimi di Omar el Bashir, il dittatore deposto nell’aprile del 2019 dopo mesi di proteste di piazza, hanno storie differenti. Mentre Al-Burhan era a capo dell’esercito sudanese e può essere considerato parte dell’establishment politico-militare, Hemedti è un darfuriano che per anni ha guidato una milizia locale di cui il governo di el Bashir si avvaleva per combattere le numerose ribellioni interne che hanno caratterizzato i suoi trent’anni di governo. Nota come janjaweed, “i diavoli a cavallo”, la milizia di Hemedti è poi stata istituzionalizzata con la creazione delle Rapid Support Forces (RSF).
Queste ultime rappresentano una evidente anomalia nella struttura delle forze di sicurezza del paese perché costituiscono una sorta di esercito indipendente, e per questa ragione uno degli obiettivi principali che il governo di transizione civile guidato da Abdallah Hamdok si era posto era quello di unificare l’esercito sudanese attraverso l’assorbimento delle RSF. Accomunati dal desiderio di mantenere il controllo dei militari sul governo e sui gangli principali dell’economia sudanese, al-Burhan ed Hemedti hanno preso il potere con un colpo di stato il 25 ottobre 2021, provocano però un ulteriore peggioramento della situazione economica del paese. Il colpo di stato ha infatti non soltanto provocato reazioni di condanna dai paesi occidentali, ma anche la sospensione di buona parte dei programmi di aiuto internazionale e dell’accesso al credito attraverso le istituzioni finanziare internazionali che non sono stati compensati dall’atteso supporto di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Russia al governo golpista.
Questo ha avuto conseguenze catastrofiche su una economia già fortemente sotto stress, aggravando ulteriormente le proteste della popolazione civile in tutto il paese.
A dicembre 2022, un accordo firmato da al Burhan, Hemedti e alcuni dei rappresentanti dell’opposizione (tra cui i leader delle Forces for Freedom and Change, rappresentanti delle associazioni professionali e alcuni gruppi della società civile) aveva dato qualche speranza di riportare la transizione democratica sui binari giusti: l’accordo prevedeva infatti il ritorno a un governo civile, il divieto ai militari di partecipare alla vita politica, e il passaggio nelle mani del Ministero delle Finanze di tutte le imprese statali, da sempre sotto il controllo dei vari pezzi dell’apparato di sicurezza. Tuttavia, nonostante l’impegno verbale delle FFC a coinvolgere altri firmatari ex post, l’accordo aveva escluso numerose delle forze di opposizione, e in particolar modo quelle espressione delle periferie più marginalizzate del paese, nonché i movimenti ribelli che nel 2020 avevano firmato l’Accordo di pace di Juba.
Inoltre, le questioni più scottanti come la riforma del settore della sicurezza, la creazione di un meccanismo di giustizia transitoria, le tempistiche per la transizione a un governo civile e la fusione degli eserciti, alla base delle divergenze tra i due leader, sono state posticipate ad una seconda fase di negoziati che avrebbe dovuto concludersi, dopo vari ritardi, il 1 aprile. Il mancato accordo in quella data, e il progressivo accantonamento di truppe delle RSF attorno a Khartoum e a Merowe erano apparsi come segnali che qualcosa non stesse andando per il verso giusto già nelle due settimane precedenti all’inizio degli scontri.
Al quinto giorno di scontri, la situazione sul terreno resta confusa, con rivendicazioni e continue smentite sulla conquista di posizioni da parte delle RSF e delle SAF a colpi di tweet. La tensione resta molto alta, mentre la situazione umanitaria a Khartoum e nelle altre città colpite dai combattimenti è in rapido peggioramento. Diversi tentativi di imporre un cessate-il-fuoco umanitario per permettere alla popolazione di uscire di casa e rifornirsi di beni essenziali sono ad oggi falliti. Nonostante la condanna pressoché unanime della comunità internazionale, l’unico tentativo di mediazione, quello delle’IGAD, che aveva deciso di inviare a Khartoum i presidenti di Sud Sudan, Kenya e Gibuti per tentare di riportare le parti a un tavolo negoziale, è per ora stato bloccato dalla chiusura a tempo indeterminato dell’aeroporto di Khartoum. Per quanto sia ancora difficile fare previsioni sulla durata e sull’entità di questo scontro, l’obiettivo delle migliaia di cittadini e cittadine Sudanesi che dal 2018 occupa le piazze chiedendo una vera transizione democratica sembra quanto mai lontano.