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7 aprile 2024 - Trent’anni dal genocidio in Rwanda, l'evento più abominevole della seconda metà del Ventesimo secolo

DAL BLOG
Di Orizzonti Internazionali - 07 aprile 2024

Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento

di Sara Lorenzini, Scuola di Studi Internazionali, Università di Trento

 

 

Il 7 aprile 2024, ricorrono i trent’anni dal genocidio dei Tutsi in Rwanda, probabilmente l’evento più abominevole della seconda metà del Ventesimo secolo. In 100 giorni, dalla notte fra il 6 e il 7 aprile e fino al 15 luglio 1994, masse di persone appartenenti alla maggioranza Hutu massacrarono centinaia di migliaia di loro concittadini, appartenenti per lo più alla minoranza Tutsi.

 

Gli anni Novanta del Novecento erano iniziati con grandi aspettative: un decennio di pace, progresso e diritti umani, in cui le Nazioni Unite, terminata la guerra fredda, finalmente ambivano a diventare un organismo capace di governare il mondo intero. Il Rwanda svelò una realtà ben diversa. Alla vigilia del massacro, “il paese dalle mille colline” (come era ed è chiamato) era considerato una storia di successo, risultato di un processo di decolonizzazione che, rispetto a altri casi nella regione - il Congo, ad esempio, devastato dalla guerra civile- era considerato relativamente tranquillo. Un paese che, dopo l’indipendenza nel luglio 1962, era stato governato da un regime paternalistico e corrotto guidato dalla maggioranza Hutu che conviveva, con scontri occasionali, con la minoranza Tutsi. Nel 1973, il nuovo presidente Habyarimana, a capo del partito unico MRND (Mouvement révolutionnaire national pour le développement) rappresentava un regime autocratico affidabile, disposto a collaborare con le istituzioni internazionali sulle politiche di aggiustamento strutturale e capace di utilizzare gli aiuti in maniera relativamente efficiente.

 

Quando negli anni Novanta, il Rwandan Patriotic Front (RPF), un’organizzazione guidata da Tutsi, attaccò a più riprese il Rwanda, la propaganda governativa accusò la minoranza Tutsi di complicità. Nella notte fra il 6 e il 7 aprile, nella capitale Kigali, iniziò un massacro sistematico della popolazione Tutsi ad opera dell'esercito, delle milizie locali e della folla inferocita. Lontano dall’essere uno scoppio spontaneo di antichi odi, il massacro era pianificato e nutrito dalla sistematica campagna di propaganda e di odio razziale. Di fronte a tanta violenza generalizzata la comunità internazionale e le Nazioni Unite restarono a corto di iniziative, bloccati da veti reciproci e da scarse risorse mobilitabili immediatamente.

 

Il genocidio terminò solo quando l'esercito dominato dagli Hutu fu costretto a ritirarsi oltreconfine. Quando finì, i morti erano almeno 800.000, per lo più Tutsi. Le stime sarebbero state corrette verso l’alto negli anni successivi – fosse comuni vengono alla luce ancora oggi. Gli storici, nello sforzo di spiegare tanta violenza fra popolazioni relativamente omogenee quanto a lingua, religione e caratteristiche fisiche hanno sottolineato le disuguaglianze di classe fra la minoranza dei più ricchi Tutsi e i più poveri Hutu, trasformata durante l’epoca coloniale (sotto il controllo tedesco fino al 1918 e belga poi) in contrapposizione fra due etnie.

 

Ripristinato l’ordine, assieme ai processi per crimini contro l’umanità dei responsabili delle campagne d’odio e dei massacri, il governo guidato da Paul Kagame avviò un esperimento di ricostruzione del tessuto civile attraverso sistematiche politiche di riconciliazione, dai risultati non sempre incoraggianti, promosse dalla Commissione di Unità Nazionale e Riconciliazione (1999).

 

Il Rwanda di oggi, con una percentuale di popolazione molto giovane (circa la metà degli abitanti è sotto i trent’anni) che non ha vissuto il genocidio, è rappresentato come un miracolo di progresso. Il successo, dicono i commentatori, è sorto dalle macerie del genocidio, con coraggiose misure di riconciliazione, con attive politiche di memoria e di educazione alla convivenza e con norme rigidissime quanto al divieto di promuovere l’odio razziale. È sorto anche da un uso sorprendentemente efficiente di aiuti generosi (si parla di “metodo Rwanda”) che ha consentito crescita del PIL, aumento delle aspettative di vita e diminuzione del tasso di mortalità infantile.

 

Kagame è protagonista di una politica estera iperattiva, a tratti anche aggressiva a livello regionale, fatta di accordi che mettono insieme anche partner improbabili. Europa, Stati Uniti e Cina, ma non solo; spiccano anche la vicinanza alla Russia affiancata da relazioni ufficiali con l’Ucraina, o la simpatia per Israele accompagnata dall’invio di aiuti a Gaza. Le disuguaglianze interne, con il 10% della popolazione (Tutsi) che occupa l’80% delle posizioni di prestigio rispecchiano una situazione di disuguaglianza certamente non rassicurante che si associa a un livello di controllo capillare della vita pubblica e ad azioni repressive tipiche di un regime autoritario.

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