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"Imprese trentine, fate lavorare i detenuti. Dategli l'occasione di reintegrarsi", l'appello del direttore del carcere di Spini. Olivi: "Cercheremo di trovare soluzioni"

Pappalardo ha spiegato che nonostante le tante richieste il tessuto imprenditoriale e artigianale locale non mostra apertura. Il lavoro come strumento rieducativo è fondamentale. I detenuti lavorano ma solo all'interno della struttura e grazie alle cooperative. L'altro grande problema sono i colloqui

Di Luca Pianesi - 26 marzo 2017 - 19:47

TRENTO. "Da più di un anno chiediamo ad imprese e aziende del territorio di accogliere alcuni detenuti per attività lavorative da svolgersi fuori dal carcere ma non abbiamo mai ricevuto una risposta positiva. Non è possibile che qui si faccia peggio che ad Agrigento o in realtà molto più problematiche di altre parti d'Italia. Il lavoro è un esigenza dell'uomo". A parlare è Valerio Pappalardo, il direttore della Casa circondariale di Spini di Gardolo. E' lui a lanciare un vero e proprio appello al tessuto sociale trentino e alle istituzioni durante la presentazione della birra allo zafferano prodotta anche con l'aiuto di sei suoi detenuti e dunque di fronte anche a figure istituzionali come l'assessore Olivi.

 

E lo fa in un momento dove forte sta emergendo la richiesta di dotare il Trentino Alto Adige di un Garante dei detenuti regionale. Una figura che potrebbe garantire non solo i reclusi ma anche chi lavora per la struttura penitenziaria trasformandosi in un portavoce (anche a livello mediatico) delle esigenze di chi il carcere lo vive tutti i giorni. E quello del lavoro, assieme al tema dei colloqui, come riferito dal direttore Pappalardo, è una di quelle questione delle quali potrebbe farsi carico con la politica e con le istituzioni svolgendo un compito di sensibilizzazione. A Spini al momento vi sono recluse 350 persone in gran parte accusate e condannate per reati non gravi, contro il patrimonio o per violazione della legge sugli stupefacenti, e molte di queste nel carcere lavorano.

 

La struttura è riuscita a mettere a disposizione circa 95 posti al maschile e 10 al femminile alle dipendenze del personale carcerario ( e quindi si dedicano alle pulizie, alla preparazione e distribuzione del vitto, alla spesa, alla manutenzione), in 50 imbottigliano detersivi (con la cooperativa Kaleidoscopio), 10 lavorano fissi nella lavanderia industriale (con la cooperativa Venature), 6 sono assunti o fanno tirocinio nella coltivazione di cavoli, zafferano e piante aromatiche (con la cooperativa La Sfera) e una decina si applicheranno nella digitalizzazione dell'archivio della previdenza pubblica (con la cooperativa Kinè). Un'apparato, però, garantito o dalla stessa struttura o dalle cooperative e più in generale solo da realtà che portano un po' di mondo esterno all'interno. 

 

"Ma il mio dispiacere più grande è che non riusciamo a realizzare il percorso inverso - prosegue Pappalardo - a far uscire i detenuti perché questo aiuterebbe davvero ai fini della rieducazione. Per noi che vi lavoriamo ciò è fondamentale perché senza la rieducazione il carcere finisce per essere solo un contenitore e anche noi ci sentiamo svuotati di parte del nostro ruolo. Io mi batto perché non sia così. E da anni inviamo mail, contattiamo aziende e imprese per chiedere loro di dare la possibilità di mettersi alla prova ad alcuni detenuti, ovviamente i più meritevoli, quelli sui quali noi, in prima persona, garantiamo e ci assumiamo la responsabilità. Ma le risposte non arrivano".

 

Un appello che però è arrivato forte e chiaro all'assessore allo sviluppo economico e al lavoro della Provincia Alessandro Olivi, presente all'incontro a Spini, che ha replicato: "Non posso che raccogliere questa richiesta e assicurare che come assessorato cercheremo, anche per mezzo dell'Agenzia del Lavoro, di creare canali più diretti tra il mondo del lavoro 'esterno' e i detenuti. Inoltre quel che possiamo fare è anche andare a sondare il terreno all'interno della macchina provinciale. Lavori di archivistica o simili potrebbero andare incontro a queste esigenze. Quel che è certo è che il lavoro è innanzitutto dignità ed è libertà, speranza, affrancamento. E quindi capisco che per dei detenuti possa assumere ancora più importanza anche in chiave di prospettiva futura. Nell'ottica di uscire una volta scontata la pena. Mi porto a casa i compiti - ha concluso con un sorriso l'assessore - e cercheremo di fare il possibile".

 

Impossibile, invece, per la Provincia, sarebbe risolvere l'altro grande problema del quale si lamentano i detenuti e che ha riportato il direttore Pappalardo: quello dei colloqui. "La regola che si può fare solo una telefonata è assurda - ha detto - crea malumore e rabbia. Spesso capita che dopo un colloquio un detenuto rimanga un po' interdetto. Le relazioni tra chi è dentro e chi è fuori sono difficili e, in molti casi, basterebbe permettere a un detenuto di fare una telefonata in più a casa per chiarirsi, per non tenersi dentro dubbi e incomprensioni. Questa è una legge che a livello politico bisognerebbe cambiare e che alleggerirebbe, non poco, la condizione di chi è costretto in carcere".

 

Un mondo a parte e molto complesso, come ha sottolineato in conclusione il direttore Pappalardo alla domanda se almeno i sei detenuti che avevano aiutato a produrre la birra alla fine avessero potuto assaggiarla o offrirla agli altri carcerati. "Un assaggino, ma con l'alcool bisogna stare molto attenti - ha detto - perché si trasforma subito in merce di scambio, come le sigarette. Per esempio, il vino, ci sono periodi che viene proibito. Ci sono alcuni detenuti che non lo bevono e lo mettono da parte e lo 'vendono' agli altri che quindi, poi, finiscono per averne 'troppo' a disposizione. E ciò può creare problemi di alterazioni e anche di sicurezza". Un mondo a parte che merita comunque di essere migliorato, per quanto possibile, anche con l'aiuto della società esterna. Perché dentro o fuori facciamo tutti parte dello stesso sistema.

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