Bio, il vigneto che difende il territorio e scandisce il paesaggio. Un vino al top deve diventare pop
Il mercato del vino bio è in grande crescita. In Trentino sono diverse le eccellenze e i produttori all'avanguardia. Pop nel termine di quotidiano e non 'low cost' per peccare di gola, ma con coscienza

TRENTO. Bio, tre lettere per un concetto decisamente di moda, incredibilmente osannato in ogni contesto. Pure abusato. Declinato per valutare stili di vita, scelte nei consumi. Abbinato ad altre due cortissime parole: top e pop. Spesso più per la prima di queste ultime sigle. Bio ai vertici di classifiche riferite all’esclusività dei top piuttosto che bio mirato a concetti pop, dunque di facile approccio, scelto proprio perché ‘popolare’.
L’ultima, ennesima conferma è legata al crescente mercato del vino ottenuto da coltivazioni biologiche. In Europa, lo scorso anno, le superfici vitate condotte in biologico sono cresciute del 12%, quasi 300 mila ettari, pari all’8% dell’intero vigneto europeo. L’Italia coltiva a bio oltre 84 mila ettari, vale a dire il 10% dei suoi vigneti. Vini tutt’altro che di nicchia. Con il mercato sempre più attento verso questo settore. Solo l’America ha importato vino bio per 121 milioni di dollari, pari al 2,5% dell’import totale. E il trend .. fermenta. Secondo l’Università di Siena tra 4 anni il Pil del vino sostenibile arriverà, in Italia, a valere circa 4 miliardi di euro, con una percentuale di crescita del 30%.
Prospettive incoraggianti pure tra le Dolomiti. Negli anni ’80 le colture bio, lungo l’asse dell’Adige, si contavano (a stento) sulle dita di una mano. I pionieri del bio erano derisi da schiere di contadini che miravano alla quantità, pochi scrupoli ambientali, il concetto di salubrità tutto da definire. Poi, con lo scandalo del metanolo – vino ‘costruito’ con criminali dosi di acido metilico, per guadagnare speculando solo sull’ignoranza gustativa di migliaia di consumatori – e con la fuga radioattiva di Cernobyl, qualcosa ha incominciato a cambiare.
Colture sperimentali, vignaioli testardi quanto capaci. Che ora sono pure al top delle classifiche enologiche. Da Alois Lageder a Elisabetta Foradori, tanto per citare i primi produttori che hanno scelto di condurre le loro aziende in maniera decisamente biologica, pure biodinamica. Stimolando una decina di vignaioli, coinvolgendo i Centri di ricerca di Laimburg e della Fondazione Mach. Poi, di vendemmia in vendemmia, alcune cantine sociali e una ‘griffe’ leader della spumantistica italiana, Ferrari.
Al punto che in meno di 10 anni gli ettari trentini del bio sono passati da qualche decina ad oltre mille. Proprio così. Vigneti che difendono valori territoriali, rispettano l’habitat, scandiscono pure il paesaggio. Perché tra i filari non si spargono concimi chimici. Si seminano un mix di erba medica, trifoglio violetto, lupino, senape e pure colza. Con risultati assolutamente piacevoli anche alla vista, filari che esplodono nel periodo di fioritura nel giallo e sfumature variopinte.
Ma chi sono i più tenaci vignaioli bio, quelli che fanno gruppo, che creano sinergie non solo colturali, pure di mercato e quindi d’immagine? Sicuramente I Dolomitici, liberi viticoltori trentini. Una decina di vignaioli, amici e solidali. In tutto. Con Elisabetta Foradori, Musa ispiratrice, autorevolezza enoica mista alla forza gentile come solo una autentica ‘donna del vino’ riesce a trasmettere. Con lei, in ordine sparso, sopra Lavis i fratelli Cesconi, Marco Zani di Castel Noarna, Eugenio Rosi, artigiano del vino in quel di Volano. Poi Giuseppe Pedrotti e Alessandro Poli, vignaioli della Valle dei Laghi, che fanno squadra con Elisabetta Dalzocchio, azienda bio sulla collina di Rovereto, mentre Gigi Spagnolli cura il suo Vilàr in quel di Villalagarina. Sulle colline di Pressano ecco ancora Alessandro Fanti con le sue intuizioni legate alla Nosiola, vignaiolo che coltiva viti ad un tiro di scioppo da un altro dolomitico, Marco Zanoni di Maso Furli.
Una pattuglia, si diceva. Che ha convinto al biologico anche alcune micro aziende. Come quella di Silvano Clementi, Villa Persani, antico toponimo di Pressano. E ancora, Giuliano Micheletti, laurea in architettura, erede di una dinastia di urbanisti che ha scelto di coltivare con la biodinamica le sue viti incastonate sulla collina di San Rocco a Trento e tra le rocce di Drena, verso il Garda destinate al suo Limina, vino appunto che ‘governa il limite’ e che lo definisce come ‘Verum, Ipsun, Factum’.
L’elenco diventa lungo. Citazioni doverose pure i Pisoni di Pergolese, sotto Madruzzo; gli Endrici dell’azienda Endrizzi di San Michele all’Adige e alcuni giovani spumantisti, Giacomo Malfer del Revì di Aldeno. Sempre ad Aldeno, nella locale cantina sociale, la prima produzione di vini non solo bio, pure vegani. Senza dimenticare i produttori che stanno per aderire a protocolli bio o di viticoltura ad impatto zero. Pojer & Sandri, i Zeni di Grumo, Pravis di Madruzzo, Maso Bergamini di Cognola, Molin dei Lessi a Lavis – tra i vignaioli – pure aziende storiche come i Togn con Maso Poli.
Tutto questo per giungere ai ‘colossi’ del vino, vale a dire la famiglia Lunelli. Che entro qualche vendemmia avranno tutta la loro campagna certificata bio. Una scelta che ha coinvolto anche e soprattutto molte aziende che ai Lunelli conferiscono uve destinate al Ferrari. In primis i soci della Cantina Toblino, decisi a costituire in Valle dei Laghi il primo Distretto Bio del Trentino. Ne è convinto il presidente della Toblino nonchè di Cavit Bruno Lutterotti, in predicato pure a presiedere il Consorzio Vini trentini.
Per chiudere: bio al top, ma quando vini bio pure pop? E’ la scommessa del prossimo futuro. Pop, un modo di essere nei confronti del vino, più laico, più “leggero”, meno formale, oltre gli schemi e i tic che stanno correndo il rischio di rendere questo settore (specialmente il bio) autoreferenziale. Pop, sia chiaro, che non sta per il riduttivo “lowcost”.
Poppizzare il vino significa renderlo accessibile a molti, certo, ma soprattutto vuol dire farlo conoscere con dei nuovi linguaggi, trasformarlo in una esperienza replicabile nella quotidianità, avvicinarlo a situazioni gioiose e informali, a luoghi belli e al tempo stesso possibili per tutti. Il vino Pop deve essere convivialità e gioia di vivere, deve tenere conto delle trasformazioni, degli stili di vita.
Educare ad un consumo responsabile e nel contempo ad un bere popolare. Per tornare ad essere pure più sobri. Che non vuol dire rinunciare al bere, ma ad un certo tipo di prodotti ‘sbagliati’. Perché – lo sostiene da sempre Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food – finora abbiamo consumato troppo e male. E proprio il mercato del biologico, tra alti e bassi di periodi di difficoltà e crisi economica, non ha subito alcun danno. Questo dimostra che le persone hanno già fatto delle scelte di consumo, che vanno nella direzione della qualità reale di ciò che mangiano.
Peccare di gola sì, quindi, ma con coscienza.