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Siamo pronti a sacrificare una privacy sociale (che protegge solo i criminali) per poterla sfruttare come risorsa strategica?

Si tratta di abituarsi a una pratica sociale completamente inedita, che naturalmente in una fase iniziale causerà problemi, come accadrebbe se tutti diventassimo improvvisamente telepatici. Ma quanti rinuncerebbero alla telepatia per paura delle conseguenze? Quanti rinunceranno allo smartphone per paura delle violazioni della privacy?
DAL BLOG
Di Stefano Fait - 14 aprile 2018

Anticipatore sociale, analista di macrotendenze consulente strategico

Domenica 15, alle 17, in Piazza Duomo, chi scrive sarà protagonista di un dibattito su spirito di comunità, smart city e big data nel contesto della Trento Smart City Week 2018. Il tema prescelto era “generico” e l’argomento è diventato più chiaro in seguito, specialmente alla luce delle recenti rivelazioni sulla sorveglianza totale e planetaria della Cia attraverso i nostri smartphone e smart Tv (wikileaks, Vault 7) e quella sulla raccolta dati personali sfrenata di Facebook, intenta a profilare ogni singolo cittadino del mondo in maniera diretta (anche quando un utente è uscito dal suo account) e indiretta (ricostruendo profili-ombra di chi non si è mai iscritto a Facebook o si è deiscritto a partire da quel che le nostre frequentazioni dicono di noi, con cookies e tramite l’interscambio di dati con altre aziende e agenzie di raccolta e trattamento dei dati, o addirittura con ospedali disposti a condividere cartelle cliniche!).

 

La questione, però, non si esaurisce qui. Nel corso della controversia intorno al ruolo di Mark Zuckerberg è emerso che Facebook è nata poche settimane dopo che il Congresso si era rifiutato di consentire al Pentagono, tramite la sua divisione di ricerca avanzata DARPA, di creare un suo proto-Facebook, chiamato LifeLog, da utilizzare per profilare ogni utente, americano e non. La coincidenza è singolare, dato che gli esperti di DARPA rastrellavano gli ambienti universitari alla ricerca di ricercatori e tecnici e Facebook è nato proprio come esperimento di Stanford sui propri studenti universitari (inizialmente battezzato Thefacebook.com): Ora DARPA sta infatti chiedendo l'interessamento di esponenti del mondo universitario e scientifico americano. Agli scienziati viene chiesto un progetto di fattibilità che possa portare in vita LifeLog entro un massimo di due anni. Addirittura sul sito DARPA esiste una pagina dedicata al progetto nella quale si parla di LifeLog in questi termini: "un sottosistema che cattura, archivia e rende accessibile il flusso dell'esperienza di un individuo e delle sue interazioni con il mondo" - "obiettivo di LifeLog è poter tracciare le fila della vita di un individuo in termini di eventi, situazioni, relazioni". Ce n'è abbastanza per evocare i peggiori fantasmi della letteratura e della cinematografia apocalittica degli ultimi 50 anni (LifeLog saprà tutto di te, Punto Informatico, 22 maggio 2003).

 

Tutto questo per dire che non c’è alcuna differenza tra Cina e Occidente: lì come qui in cima alla piramide sociale non esiste alcuna separazione tra pubblico e privato, azienda e governo. Inoltre chi sta in cima gode di privacy estesissima su praticamente tutte le sue iniziative mentre le persone comuni sono spogliate di ogni privacy sia nella sfera pubblica (indebitamento e solvibilità, CV, frequentazioni pubbliche, fedina penale, potere d’acquisto, ecc.) sia in quella privata (preferenze sessuali, credo religioso, orientamenti politici, frequentazioni intime, scelte genitoriali, ecc.) e non esiste alcuna opzione di autoesclusione (anche chi non usa app, social media, smartphones e qualunque tecnologia dell’internet delle cose viene comunque mappato indirettamente).

 

 

Per usare una felice formula di Silvano Serpagli, che sarà co-protagonista del dibattito sui cittadini smart “la privacy è una chimera; esiste solo quando ci rendiamo conto che è stata violata. Parliamo di una cosa che non esiste, o non esiste più da molto tempo”. È una precisazione necessaria per ribattere alla magnifica critica che mi è stata rivolta da Alessio Gerola (Sistema di Credito Sociale in Trentino: tra bisogno di sicurezza e rischio di discriminazione, il Dolomiti, 7 aprile 2018). Magnifica perché corretta, non aggressiva e in grado di valorizzare i passaggi del testo criticato. Si tratta dell’interlocutore ideale, che a una tesi contrappone una antitesi che può condurre a una sintesi che eleva il livello di comprensione di una questione. Troppo spesso, invece, ci si limita a un duello sterile.

 

Spero di essere equanime nell’identificare i nodi centrali della critica di Gerola. La prima obiezione è che si sa davvero troppo poco del sistema di credito sociale cinese. Questo però non è per demeriti cinesi. Sempre in nome della trasparenza, esistono portali cinesi che dettagliano la sperimentazione in corso sia dal punto di vista dei risultati sia da quello del quadro giuridico, anche in inglese (es. Shanghai Municipal Social Credit Regulations; “Map” of the 2014-2020 Social Credit Plan).

 

D’altro canto credo pochissimi trentini sappiano di un’iniziativa provinciale che spinge la società trentina in quella stessa direzione (per la gioia degli assicuratori): Dopo la profilatura iniziale e ogni volta che il cittadino raggiunge un traguardo intermedio durante le “sfide della salute” matura dei “punti social” che può decidere di destinare ad un’iniziativa sociale nell’ambito della promozione di più sani stili di vita. Superare una certa soglia di “punti social” significa, per un’iniziativa sociale, ricevere effettivamente delle risorse finanziarie. Il cittadino può donare ma anche ricevere. Ad ogni sfida affrontata si possono ottenere sconti e omaggi per l’acquisto di prodotti/servizi attinenti la salute e i sani stili di vita offerti da imprese partner. Le varie tappe delle “sfide della salute” sono arricchite da messaggi informativi e curiosità che rendono il percorso interessante, piacevole ed educativo (Approvato “Trentino salute +”: i sani stili di vita si incentivano con un'App, 29 marzo 2018). 

 

Una seconda obiezione è quella della fallacia naturalistica: ciò che è non è detto che sia destinato a continuare ad esistere. In altre parole, il fatto che noi occidentali ci siamo, perdonate l’indelicatezza, calati completamente le brache di fronte ai violatori della privacy e che tendiamo, come gli altri esseri umani, a gerarchizzare il prossimo in base ai nostri personali rating (Quanto guadagni? Che studi hai fatto? Che misure anatomiche hai? Le tue scarpe sono di marca? Quanto costa la tua auto?), non comporta che il nostro futuro debba essere di questo tono. In effetti i continui scandali potrebbero farci rinsavire ed è indubbio che sia in corso un’evoluzione dei costumi in direzione di un appiattimento della piramide sociale e una valorizzazione dell’interiorità rispetto all’esteriorità.

 

Tuttavia, realisticamente, non mi aspetto balzi evolutivi istantanei di massa. Una minoranza magari passerà oltre, mentre una maggioranza ci metterà il suo tempo. Quindi, intanto, che si fa? Il parere di Gerola che questo sistema imporrebbe un determinato comportamento non tanto per un’elevazione spirituale ai valori comunitari, a meno che non già presenti (nel qual caso verrebbe meno il bisogno di questo sistema), ma per un calcolo di costi e benefici è del tutto fondato e inoppugnabile. Le cose stanno esattamente così. Ma le riforme sociali si fanno con l’umanità che abbiamo a disposizione, in direzione di quella che ci auguriamo di incarnare in futuro. L’ingegneria sociale utopica, storicamente, si è dimostrata eccessivamente pericolosa. Meglio un radicalismo realistico, anche se prosaico.

 

Gerola considera che l’esito finale sarebbe quello di una tirannia della maggioranza o di chi ne plasma le aspettative tramite gli algoritmi. Ancora una volta, è quello che accade ogni giorno. La gente, sperimentalmente, tende a conformarsi ai giudizi più assurdi, che negano la loro percezione della realtà, piuttosto che ragionare con la propria testa e avere il coraggio delle proprie opinioni (es. esperimento di Asch). Almeno sfruttiamo a fini di utilità pubblica un conformismo che tanto non svanirà a breve. Un’ulteriore obiezione è che nessuno spirito di comunità puà emergere da una metrica reputazionale. I numeri sono freddi e le misurazioni artificiali. Non c’è il calore della spontaneità affettiva. Anzi, la si recide sul nascere.

 

Qui, secondo me, il filosofo della tecnologia all’Università di Twente in Olanda dimentica che ciascuno di noi giudica le persone dalle apparenze, in ogni istante (immagine corporea, stile del vestire ed atteggiarsi, potere d’acquisto, ecc.).

C’è poco di spontaneo e molto di meccanico nelle interazioni umane. Poiché la gran parte delle persone si ritroverebbe nella fascia centrale della curva di distribuzione a campana (con gli psicopatici/sociopatici all’estremo inferiore e i “santi” a quello superiore), trovo difficile immaginare che una quantificazione della propria affidabilità e civismo aggraverebbe la situazione. Potrebbe invece ingenerare una rivalità virtuosa tra i singoli, a tutto vantaggio del progresso civile.    

 

Se 5 dimensioni di valutazione ci paiono insufficienti, perché tendono magari a favorire i ricchi che possono permettersi di non incorrere in insolvenze e di praticare la filantropia, in Trentino se ne possono pensare di diverse, o ulteriori, in modo da consentire a tutti di eccellere in almeno una, meglio due dimensioni, se c’è la volontà di farlo (es. lavori socialmente utili, partecipazione al voto, volontariato, stile di vita salutista, ecc.).

 

Anche la Cina si trova in una fase sperimentale; non ha già deciso quali parametri adottare. L’idea di sanzionare il dissenso anti-establishment non è mai stata presa in considerazione dal governo in nessuna tappa del percorso sperimentale (almeno non pubblicamente). Noi potremmo decidere di premiare il dissenso come servizio di utilità pubblica, a patto che non implichi comportamenti violenti. Perché fossilizzarci e limitarci? Nessuno ha parlato di prendere in blocco quel che porranno in essere i cinesi a partire dal 2020. Non gettiamo il bambino con l’acqua sporca. Si arriva infine a quello che per me è il nodo centrale del dibattito. Io invoco un “nudismo sociale” che per molti è non solo sgradevole e immorale ma anche giuridicamente e socialmente pernicioso. 

 

Gerola rigetta il mito della società trasparente e la premessa che la segretezza sia automaticamente sinonimo di criminalità e giustamente sottolinea che io stesso mi premuro di precisare che la sfera strettamente privata va salvaguardata.

Se riscrivessi il pezzo ora aggiungerei che la sfera privata dovrebbe rientrare nella categoria del sacro, un qualcosa a cui ci si avvicina con rispetto, sensibilità, ponderazione, misura, prudenza, devozione e dedizione. Giusto per fugare ogni dubbio e possibile equivoco. Gerola avverte che l’asimmetria di potere esistente rende inefficace e potenzialmente deleteria la mia invocazione di trasparenza radicale della sfera pubblica, ma questa osservazione ricade nella già citata fallacia naturalistica. Le cose possono sempre cambiare senza pensare di usare la bacchetta magica per farlo. La trasparenza non è un mito se consente di fare luce sul quel che avviene ai piani alti della piramide sociale, tra chi gestisce il potere. Laddove maggiore è la concentrazione di potere, maggiore è la corruttibilità, se non c’è trasparenza.

 

Perciò una riforma credibile della società non può prescindere dalla vocazione alla trasparenza progressivamente sempre più estesa, senza ledere la sfera privata, su cui si applica il principio di privacy. Per chiarire meglio questo punto, ricorrerò a un classico motivo della fantascienza e del genere fantasy: le norme consuetudinarie dell’interazione telepatica. Quando si parla di telepatia di solito si sottintende che la trasparenza è radicale, ma non è assoluta. Questo perché dal momento che due interlocutori telepatici sanno con chi hanno a che fare, scandagliare la sfera intima diventa superfluo e fortemente riprovevole. Quindi entrambi possono istantaneamente schermare i propri pensieri e ricordi, ma quasi sempre è inutile, perché hai accesso a informazioni sufficienti per sentirti al sicuro e concedere all'altro la piena discrezionalità sulla condivisione di dati più personali.

 

Ecco, io la cosa dei crediti sociali la intendo così: una volta che conosci il profilo sociale della persona e sai con chi hai a che fare, la sfera privata diventa automaticamente inviolabile perché solo dei delinquenti o predatori vorrebbero sondarla e i rapporti sono più rilassati, meno sospettosi, meno meccanici e controllati. Si tratta di abituarsi a una pratica sociale completamente inedita, che naturalmente in una fase iniziale causerà problemi, come accadrebbe se tutti diventassimo improvvisamente telepatici. Ma quanti rinuncerebbero alla telepatia per paura delle conseguenze? Quanti rinunceranno allo smartphone per paura delle violazioni della privacy? Sacrifichiamo, allora, una privacy sociale che non ha più ragione di esistere perché serve solo a proteggere criminali, pedofili, ecc. e perché siamo contenti di poterla sfruttare come risorsa strategica (big data) per migliorare le nostre circostanze di vita traducendo l’informazione in conoscenza socialmente utile in sorgente aperta e contenuti aperti e in accordo con il principio del copyleft (modalità di esercizio del diritto d'autore che sfrutta i principi di base del diritto d'autore non per controllare la circolazione dell'opera bensì per stabilire un modello virtuoso di circolazione dell'opera, che si contrappone al modello detto proprietario) e per poter salvaguardare quella personale che invece è sacra.

 

La massiccia tendenza al rafforzamento della condivisione dei saperi e verso la trasparenza informativa mi inducono a ritenere che questo fenomeno vada governato invece che arginato o lasciato all’arbitrio dei potentati occultati.

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