Macron al governo col 16% del consenso, in Italia un terzo dei cittadini "pensa" alla rivoluzione. Attenzione che la corda può spezzarsi


Anticipatore sociale, analista di macrotendenze consulente strategico
L’affluenza al voto alle provinciali in Trentino è crollata dall’87% del 1993 al 62% del 2013 perdendo quasi il 25% in vent’anni. Se pensiamo che per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale del capoluogo si sono astenuti il 40% degli aventi diritto nel 2009, diventati oltre il 45% nel 2015, possiamo immaginare uno scenario in cui, in assenza di proposte realmente convincenti, una maggioranza di trentini non si recherà alle urne nel 2018 per le prossime provinciali.
Quale sarebbe il significato di un tale evento?
Cerchiamo di capirlo esaminando il caso francese.
Anche nei paesi in cui il voto è obbligatorio (per esempio è così in Australia) di norma l'affluenza supera di poco il 70%. In Francia il voto non è un obbligo di legge ma un dovere civile e ben oltre la metà dell'elettorato francese non si è presentata alle urne né al voto presidenziale né a quello legislativo. Le uniche categorie socio-demografiche in cui il numero degli astenuti non è risultato superiore a quello di chi è andato a votare sono quelle dei pensionati e degli elettori con più di 60 anni di età. Non vi è stato un divario tra città e aree rurali: l'astensione è prossima al 60% in campagna come nelle città piccole, medie o grandi.
Solo nel mondo anglosassone si dichiara che un’affluenza bassa è il segno di una democrazia matura, compiuta e che chi si astiene “non conta” e, in pratica, non è degno di ascolto. Altrove, più lucidamente, ci si interroga sulla rappresentatività degli eletti e sullo stato di salute della democrazia, tanto più se si considera che in genere la crescita dell'astensione va di pari passo con quella della sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni. Negli Stati Uniti, una democrazia reputata matura, il 55% dei cittadini ha scarsa o nessuna fiducia nel Congresso e solo il 9% ne ha molta.
In Francia, tra le motivazioni che hanno portato all'astensione, figurano preminentemente la sfiducia in chi si occupa di politica e la possibilità che si arrivi a un cambiamento reale che insieme assommano al 43%. A questi si aggiunge un 16% di persone che non ha trovato una proposta convincente. Oltre la metà di chi ha optato per l’astensione l’ha quindi fatto consciamente, dando un peso rilevante al proprio voto, tanto da decidere di non svalutarlo votando così tanto per fare, o turandosi il naso. Questa porzione dell’elettorato non può essere accusata di qualunquismo o analfabetismo politico come spesso si tende a fare. Sono persone che hanno stabilito di non dare il proprio voto a chi ritengono non se lo meriti. Un discorso analogo vale per chi ha votato, in percentuali da record, scheda bianca o nulla. Le due principali ragioni di questa scelta sono “il rifiuto totale di entrambi i candidati”, in ragione del 51%, e il disaccordo rispetto alle loro idee (39%).
Sono ragioni degne di rispetto.
Ora Macron governa la Francia con solo il 16% del consenso pieno dei suoi elettori. Il 43% di chi l’ha votato l’ha fatto per fermare Marine Le Pen e il resto per la sua personalità o perché è un volto nuovo, pur non avendo preso visione del suo programma di governo. Queste due ultime categorie non dovrebbero essere immuni dalle accuse di qualunquismo e analfabetismo politico, a meno che non si concluda che un voto tanto per votare vale più di un’astensione consapevole e informata. Esplorando più in profondità il voto francese rileviamo che il 43% dell'elettorato ritiene che a presiedere il governo non ci dovrebbe essere un politico ma una figura emersa dalla cosiddetta società civile.
Oltre il 60% degli intervistati reputava indesiderabile che Macron ottenesse la maggioranza assoluta dei deputati in occasione delle legislative, come si è poi invece verificato. Alle legislative ben il 41% di chi simpatizzava per Macron non ha votato per i candidati del suo partito. Più strabiliante ancora è il dato che solo l’11% degli intervistati dichiara di aderire agli annunci e alle iniziative del nuovo presidente francese e del suo governo. In particolare quasi due terzi degli elettori si oppongono alle sue politiche del lavoro e della tassazione, due temi chiave della campagna elettorale. È lecito domandarsi quanto solide siano le basi di legittimazione di cui godrà Macron agli occhi dei francesi, una volta terminata la luna di miele.
Un tema dominante in tutte le varie espressioni del cosiddetto populismo sconfitto dal giovane presidente francese è la volontà di riprendersi il controllo della politica e della società rispetto alle forze che governano le nostre vite e non amano la trasparenza. La richiesta è quella di dare voce alle istanze della gente in contrapposizione all’elitismo delle lobby e dei poteri forti. Peraltro la democrazia è nata precisamente a questo scopo e, dopo le vicende greche, è difficile ignorare il peso che hanno avuto sulle decisioni politiche (memorandum, diktat, ecc.) del continente organi tecnocratici non eletti sospettati di fare gli interessi di minoranze di privilegiati come il FMI, la Federal Reserve, la Bundesbank, la BCE, oltre alle banche tedesche e francesi.
Se il sistema esistente conduce, in Grecia, a un aumento della mortalità infantile del 43% e a un declino del tasso di fertilità del 22,1%, è naturale che chi assiste a questo sfacelo pretenda maggiore partecipazione nelle scelte che determinano il suo futuro, se non altro per timore di fare prima o poi la stessa fine. Invitare a votare il meno peggio, turandosi il naso per senso civico, o considerare l’astensionismo come un dato secondario rispetto alla vittoria politica, sono strategie dal fiato corto.
Per il momento l’astensionismo raccoglie lo scontento che si limita a convertirsi in resistenza passiva, ma il fenomeno può sempre tramutarsi in qualcosa di più assertivo, testimoniato dal dato registrato in più sondaggi realizzati dall'istituto demoscopico di Trieste, SWG, che vedono almeno un terzo degli italiani disposto a considerare la rivoluzione come l’unica strada per cambiare uno status quo intollerabile.
Quando il male minore cresce in misura tale che per molti diventa arduo distinguerlo dal male maggiore, la corda può spezzarsi. Di questo i politici non potranno non tener conto d'ora in avanti, se hanno a cuore il contratto sociale coi cittadini.