Crisi dell'informazione e crollo delle vendite dei giornali: quando piccolo è bello


Anticipatore sociale, analista di macrotendenze consulente strategico
Il mondo dell’informazione è in subbuglio, come accade sempre quando il vecchio è costretto a lasciare spazio al nuovo e lo fa molto malvolentieri. Mentre Wikileaks sta lanciando la sua prima redazione giornalistica nel Regno Unito, nei giorni scorsi un Pulitzer, un candidato al Pulitzer e il capo del team investigativo della CNN si sono dovuti dimettere per uno scoop inventato di sana pianta su presunte interferenze russe nell’elezione di Trump (il cosiddetto “Russiagate”). Uno dei veterani della produzione CNN, infatti, ha ammesso che il suddetto Russiagate “potrebbe essere una gran str...a, cioè al momento attuale è in gran parte una str…a”, il New York Times, che sta continuando a licenziare dipendenti e a dover fronteggiare le loro manifestazioni di protesta, ha dovuto ammettere che la notizia delle 17 agenzie di intelligence americane concordi nel sospettare un’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali era falsa.
In pochi giorni una notevole concentrazione di indizi che ci inducono a riflettere sul futuro dell’informazione.
La crisi di credibilità che ha colpito il modello giornalistico angloamericano è profonda, ma non è limitata alle nazioni anglofone. Gli istituti di indagine degli orientamenti dell’opinione pubblica rilevano che la fiducia nei giornalisti/testate in Italia è relativamente alta (33%/43%), rispetto a Giappone (21%/33%), Corea del Sud (17%/17%), USA (27%/30%), Francia (29%/28%), Svezia (25%/36%), Svizzera (35%/39%), Norvegia (32%/42%), Australia (32%/39%), Regno Unito (29%/42%). (fonte: sondaggio del Reuters Institute for the Study of Journalism, giugno 2016).
Per l’eurobarometro 84 (il servizio della Commissione europea che misura e analizza le tendenze dell'opinione pubblica in tutti gli Stati membri e nei paesi candidati) quasi 1 europeo su 5 non legge mai le informazioni della carta stampata. Solo il 43% degli europei tende a fidarsi della carta stampata (-7% dal 2010). Il 73% degli inglesi, il 55% degli spagnoli, il 49% dei tedeschi, il 48% degli austriaci e il 46% degli italiani e dei francesi non si fida della carta stampata. Da un recente sondaggio Gallup apprendiamo che solo il 32% degli americani ha molta o abbastanza fiducia nei mezzi d’informazione convenzionali. Il valore era del 54% nel 2003 e del 72% nel 1976. Di riflesso, i profitti delle testate più celebri sono andati incontro a fortissime contrazioni. Quelli del New York Times, per esempio, sono crollati del 25,6 per cento tra 2015 e 2016. Il Guardian, il secondo più importante quotidiano di lingua inglese dopo il NYT, ha perso 400 milioni di sterline negli ultimi 3 anni e si calcola che, di questo passo, chiuderà i battenti entro il 2022, quasi in coincidenza con i suoi 200 anni dalla fondazione, a meno che non licenzi metà del suo personale per contenere i costi operativi.
Eppure porre la lente di ingrandimento sui nomi più prestigiosi, con le tirature più ragguardevoli, può non essere particolarmente utile. In fondo il 97% delle testate (quotidiani e settimanali) statunitensi ha un numero di lettori inferiore alla soglia dei 50mila ed è presumibile che questo sia un dato che accomuna molte altre realtà. È curioso come esse siano quasi sempre escluse dal dibattito sul futuro dell’industria dell’informazione. Tanto più se poi si scopre che sono riuscite piuttosto brillantemente a veleggiare tra i marosi della crisi, al punto da riuscire a crescere, in controtendenza rispetto a periodici e quotidiani con un pubblico nazionale o addirittura globale (Sharon Knolle, “Despite ’Doom and Gloom,’ Community Newspapers Are Growing Stronger,” Editor & Publisher, June 1, 2016).
Un istruttivo sondaggio tra 400 giornalisti americani al lavoro in queste piccole e medie testate (Life at small-market newspapers: A survey of over 400 journalists, Columbia Journalism Review, 10 maggio 2017) rivela che il 41% di chi ha partecipato ha dichiarato che nella sua redazione non ci sono stati tagli al personale dal 2014 in poi. Solo un terzo riferisce che, nonostante i licenziamenti, si è trovato un carico di ore di lavoro accresciuto. Uno stupefacente 80% non teme di perdere il proprio lavoro e il 61% è ottimista circa il futuro della stampa locale e si sente ingiustamente torteggiato nell’essere dipinto con gli stessi toni cupi che si riservano alle testate nazionali e internazionali, quando invece la propria esperienza quotidiana è sensibilmente differente.
Il loro segreto? Semplice. Una maggiore possibilità di mantenere rapporti diretti con i lettori e quindi di resistere alla forza attrattiva dei centri di potere locali e nazionali, approfondendo le notizie che stanno a cuore alla popolazione, invece di quelle che contano per una minoranza di cittadini. L’inarrestabile declino dei maggiori quotidiani, oberati da debiti inestinguibili che li legano indissolubilmente a chi li tiene a galla e incapaci di frenare l’emorragia di lettori dimostra che il gigantismo è un’arma a doppio taglio: come i mammiferi rispetto ai dinosauri, si deve cercare di essere più snelli, adattivi, resilienti…e in rapporti più stretti con i lettori.