Dal ritorno dello Stato nell'economia alla crisi climatica, dal ritardo dei sistemi sanitari ai nuovi equilibri geopolitici: com'è cambiato il Mondo con il Covid


Come sarà il Mondo dopo questa pandemia? La domanda ce la siamo posta continuamente in questo lungo tempo di confronto con il virus. Resta comunque attuale, necessaria. La risposta, però, appare complessa, difficile, più simile ad una divinazione, che ad una tesi scientifica. Venti mesi dopo l’avvio di questo dramma globale chiamato Coronavirus, qualche elemento per capire, a dire il vero, lo abbiamo. Ci sono segnali, indicazioni, comportamenti che ci raccontano di un Pianeta alle prese con problemi enormi, ma indirizzato in modo diverso da prima. Quello che possiamo intuire, è che difficilmente le cose torneranno a come le conoscevamo sino al 2019.
Come sempre facciamo qui, sull’Atlante, partiamo dai dati: al 30 settembre 2021 i casi mondiali accertati erano 233.136.147. I morti erano 4.771.408 e le dosi di vaccino complessivamente somministrate più di 6miliardi. Cifre spaventose, che alla crisi sanitaria evidente affiancano una crisi economica e di sistema che, in molti casi, è lacerante. Facciamo un esempio: il lavoro. Nel 2020, secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro – un’agenzia delle Nazioni Unite -, si sono perse 12miliardi di ore, pari a 250milioni di posti di lavoro a tempo pieno andati in fumo. Un disastro che pesa e peserà sulle economie, fermando i mercati interni. Della situazione molti Governi si sono resi conto e qui tracciamo la prima linea di cambiamento in atto. A livello planetario, il ruolo degli Stati nell’economia è tornato fondamentale. Chiusi i ruggenti anni della marginalità statale e della deregulation selvaggia, il “pubblico”, cioè lo Stato, è tornato protagonista. “Stiamo assistendo ad una rivoluzione che non sappiamo dove ci porterà”. A scriverlo è stato The Economist.
Di fronte alla crisi, i Governi hanno stimolato l’economia con interventi diretti, le banche centrali sono state protagoniste con programmi di sostegno e il debito pubblico è schizzato in avanti, senza però che alcuno alzasse la voce scandalizzato. Negli Stati Uniti, il presidente Biden ha promosso un’operazione da 1.900miliardi di dollari per rilanciare l’economia. “Serve – ha detto – un’economia che va dal basso verso l’alto e dal centro verso l’esterno e non dall’alto verso il basso”. Una buona idea, che si è tradotta in una vera rivoluzione: ha abbassato le tasse ai più poveri e non ai ricchi, rovesciando le convinzioni di un trentennio, passato a teorizzare che favorire i più abbienti riducendogli le imposte fosse utile anche per la classe media.
La rivoluzione che non c’è, invece, è quella necessaria per portarci fuori dalla crisi climatica. Il lockdown del 2020 ha aiutato: le emissioni globali di anidride carbonica sono diminuite di 2,3 miliardi di tonnellate, il 6,4% in meno rispetto al 2019. Il calo è figlio del traffico aereo bloccato, delle industrie paralizzate, delle strade deserte. In realtà, gli esperti si attendevano un risultato migliore. Volessimo oggi evitare che, a livello globale, vengano superate di 1,5 gradi le temperature rispetto all’epoca pre-industriale, dovremmo quest’anno ridurre le emissioni di carbonio del 7,6%. Insomma, siamo lontani. Per di più, la ripresa di una vita normale post pandemia fa temere un rimbalzo verso l’alto delle emissioni, dovuto alla frenesia delle attività economiche e alla voglia di spostamenti delle persone. La certezza – lo dicono gli esperti – è che il cambiamento climatico in atto, in termini di pericolosità e di mortalità, entro trent’anni sarà ben peggio del Coronavirus.
I costi sociali saranno altissimi. Il tutto in un Mondo che ha dimostrato – terza riflessione – di essere inadeguato dal punto di vista della spesa sanitaria. L’Analisi è di Oxfam e Development Finance International (Dfi). Hanno lavorato sulle politiche di 158 Paesi relativamente ai servizi pubblici, al fisco e ai diritti dei lavoratori. Si tratta di tre aree strategiche, considerate fondamentali per ridurre la disuguaglianza e superare l’emergenza Coronavirus. Bene, dal lavoro risulta che prima della pandemia, solo 26 Paesi destinavano circa il 15% della loro spesa pubblica totale alla sanità. In 103 Paesi, poi, un lavoratore su tre non aveva tutele o diritti essenziali, come l’indennità di malattia.
“Al netto della retorica – ha dichiarato Chema Vera, direttore esecutivo di Oxfam International – pochi governi al Mondo negli ultimi anni si sono veramente impegnati a contrastare le disuguaglianze economiche e sociali e a tutelare adeguatamente le persone più vulnerabili. La pandemia ha peggiorato una situazione già gravemente compromessa. Milioni di persone sono finite in povertà, si è aggravata la piaga della fame e centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita.” Giusto per intenderci, forse anche per capire meglio le scelte attuali di Biden, in questo campo, gli Stati Uniti sono il fanalino di coda dei Paesi del G7. In materia di legislazione sul lavoro, hanno una situazione peggiore di Paesi poverissimi come Sierra Leone e Liberia. Questo a causa delle politiche anti-sindacali e di livelli eccezionalmente bassi del salario minimo legale. La foto che esce dall’analisi di Oxfam e Dfi, è quella di un Paese con un sistema sanitario che esclude milioni di persone povere, soprattutto le comunità nere e latino-americane.
Solo 1 famiglia afroamericana su 10 può permettersi un’assicurazione sanitaria, contro le 7 famiglie su 10 nella comunità bianca. Altri Paesi in queste condizioni – cioè con scadenti politiche di contrasto alle ingiustizie – sono Nigeria, Bahrain e India. La spesa sanitaria dell’India è, in termini percentuali rispetto alla spesa pubblica complessiva, la quarta più bassa al Mondo. Solo metà della popolazione ha accesso ai servizi sanitari essenziali. In più, in diversi Stati della federazione, le condizioni di lavoro sono peggiorate. Le ore lavorative sono state aumentate da 8 a 12 al giorno ed è stata sospesa la legge sul salario minimo. Il risultato è che i poveri sono sempre più poveri. La pandemia ha allargato la forbice e le differenze, affossando spesso anche i diritti. Molte democrazie, in Europa e Asia, sono diventate una semplice facciata, priva di sostanza e con migliaia di dissidenti incarcerati o eliminati.
La pandemia, invece, sembra non avere avuto alcuna conseguenza sul mercato delle armi, che rimane vivace e capace di generare fatturati ultramiliardari. In questo, ad aiutare – siamo al quarto filone di riflessione – c’è il riposizionamento generale a cui stiamo assistendo, in termini di geopolitica. Gli Stati Uniti sembrano aver scelto il ritorno alla vecchia politica “dell’impero del mare”, riposizionando la flotta e stringendo una nuova alleanza – Aukus – con Regno Unito e Australia. Tutto è avvenuto, almeno ufficialmente, nel settembre del 2021, dopo la fuga dall’Afghanistan e l’abbandono – mai dichiarato, ma nei fatti – dell’impegno militare terrestre da parte di Washington. Troppo costoso mantenere un esercito.
Così, per contenere la Cina, protagonista nel Mondo anche grazie alla politica dei vaccini, dichiarati da Pechino “bene pubblico mondiale”, gli Usa puntano sugli alleati anglofoni del Pacifico e sulla flotta. Una scelta che ha creato malumore nei vecchi alleati europei della Nato, che si stanno organizzando per creare la prima forza militare di pronto intervento – 6mila uomini – della storia della Ue. Intanto, nel Mediterraneo lo scontro fra Francia e Turchia per il controllo sta diventando sempre più evidente. Parigi ha concluso un accordo militare con Atene, storica nemica della Turchia: fornirà navi e addestramento. Prove muscolari, eserciti riposizionati, povertà che cresce, diritti che vengono ignorati, ruolo degli Stati che cambia e torna fondamentale. Il Coronavirus sta cambiando il nostro tempo. E’ un cambio veloce, profondo, radicale. La cosa positiva è che lo sappiamo, ce ne rendiamo conto e possiamo fare scelte, prendere contromisure. A pensarci bene, non è poco.