Una fortezza militare imprendibile e autosufficiente: ecco da dove parte la crisi in Corea del Nord


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
La crisi nella penisola coreana ha profonde radici che possono essere fatte risalire ai primi anni Novanta, quando Kim Jong-il (padre dell’attuale leader Kim Jong-un) decise di avviare un programma nucleare militare. La disputa si risolse momentaneamente con la firma dell’Agreed Framework del 1994, che stabiliva uno scambio tra la rinuncia della Corea del Nord a costruire una bomba atomica e la fornitura di aiuti economici. Se si guarda ancora più indietro, la decisione di Pyongyang di intraprendere un programma nucleare rimanda al fondatore del regime comunista, Kim Il-sung, e alla sua volontà di trasformare il paese in una fortezza militare imprendibile e autosufficiente (ideologia della Juche).
I numerosi interventi americani nel dopo-guerra fredda (Iraq 1 e 2, Afghanistan) devono avere ancor più convinto la leadership nordcoreana della necessità di munirsi di una “assicurazione nucleare” contro ingerenze esterne (mirate al “regime change”). Le cose negli ultimi tempi sembrano essersi complicate per il convergere di due fattori: l’avvento in Corea del Nord di un nuovo leader molto giovane, la cui posizione interna è fonte di molte congetture – e poche certezze – da parte degli osservatori internazionali; l’elezione negli Stati Uniti di un presidente privo di qualsiasi esperienza politica internazionale, che ha alternato discorsi infiammati e maldestre operazioni di “gunboat diplomacy” a repentine retromarce, probabilmente consigliate dai suoi collaboratori.
Alla luce di questi fatti, cosa ci si può aspettare nel breve-medio periodo? A nessuno degli attori coinvolti conviene una escalation militare o un collasso immediato del regime comunista. Le conseguenze – perdita di controllo dell’arsenale nucleare, ondate di profughi verso la Cina e la Corea del Sud, una riunificazione il cui costo farebbe impallidire quello delle due Germanie – sarebbero pesantissime per tutti. E anche se gli USA al momento sono al riparo da una possibile rappresaglia sul suo territorio, certo non avrebbero da guadagnare da un eventuale attacco contro uno dei suoi alleati chiave della regione (Seul o Tokyo), tenendo anche conto dei limiti operativi manifestati dai sistemi antimissile dispiegati nell’area.
Ciò significa che una escalation militare è da escludere del tutto? Come insegna la storia, a volte le crisi militari sfuggono di mano, al di là delle intenzioni degli attori coinvolti. Tenendo conto dell’accumulo di “materiale infiammabile” nella penisola coreana – un regime autoritario e imperscrutabile che può ricorrere a un comportamento internazionale aggressivo per scopi nazionalistici, la limitata capacità di Pechino (più volte ammessa) di condizionare Pyongyang, la presenza di un confine altamente militarizzato tra due paesi ancora formalmente in guerra, l’inesperienza della nuova amministrazione americana – il rischio che qualche scintilla possa appiccare un incendio non può essere escluso del tutto.
Dall’altra parte, è sempre bene non considerare un regime autoritario come sinonimo di comportamento irrazionale: il gruppo di potere intorno a Kim Jong-un che attualmente regge le sorti del paese non ha nessun interesse a compromettere la sua posizione lanciandosi in improbabili avventure, per cui ci si può ragionevolmente aspettare che tirerà la corda senza spezzarla. Il passare dei mesi, poi, fa sperare che la nuova amministrazione Trump, superati gli attuali problemi di politica interna del presidente e presa dimestichezza con i riti e le pratiche della diplomazia internazionale, torni a un comportamento più costruttivo, sollecitata in questo anche da Pechino, che più volte in passato ha cercato di indirizzare la Corea del Nord verso un programma di riforme simile a quello cinese.
di Paolo Rosa, professore di “Strategic Studies” e “Peace and Conflict Studies: Theory and Methods” presso la Scuola di Studi Internazionali, Università di Trento