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Tensione Russia- Ucraina, dall'errore di rinunciare alle armi nucleari dell'ex impero sovietico alle prove di guerra di questi giorni

La tensione politica e militare nello spazio post-sovietico è cresciuta molto negli ultimi mesi; ma nel Donbass si combatte da 8 anni e nuovi venti di guerra non si sono sollevati dal nulla. Ecco cosa sta succedendo e perché
DAL BLOG
Di Orizzonti Internazionali - 03 febbraio 2022

Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento

di Paolo Rosa e Alessandra Russo - docenti della Scuola di Studi Internazionali, Università di Trento

 

Oggi probabilmente i dirigenti di Kiev stanno maledicendo il giorno in cui, agli inizi degli anni Novanta, decisero di rinunciare alle armi nucleari ereditate dalla dissoluzione dell’impero sovietico. Allora la mossa fu salutata – non dagli osservatori più attenti alle dinamiche di realpolitik – come lungimirante e come un segnale che l’Ucraina si apprestava ad entrare nella comunità internazionale come un partner affidabile che rinunciava a forme surrettizie di proliferazione. Col senno di poi, quella mossa forse non fu così saggia, data la presenza dell’ingombrante vicino. Era all’epoca così imprevedibile che la Russia, scossa allora dall’implosione del regime e del suo impero, sarebbe, una volta sistemate le faccende interne, tornata a bussare alle porte dei suoi ex satelliti?

 

Negli ultimi trent’anni, nonostante le traiettorie politiche non sempre lineari e le transizioni solo parzialmente compiute che hanno caratterizzato l’area ex-sovietica, una costante sembra essere ben visibile: la Russia non ha mai smesso di rivendicare un ordine regionale e la propria impronta egemonica sui Paesi del cosiddetto “estero vicino”. Sotto i riflettori, nelle ultime settimane, è l’escalation tra Mosca e Kiev: dinamica né inedita, né tantomeno circoscritta se guardiamo ai conflitti etichettati come “di bassa intensità” che puntellano l’area. Il caso del Nagorno-Karabakh è quello su cui molti hanno tenuto gli occhi puntati negli ultimi 18 mesi, ma se allarghiamo l’orizzonte temporale possiamo includere Abkhazia, Ossezia, Transnistria… e poi Crimea e Donbass.

 

Negli ultimi 8 anni le stime, seppure incerte ed imprecise, ci raccontano di una crisi che ha fatto circa 14 mila vittime ed un milione e mezzo di sfollati. Tuttavia, nelle sedi internazionali per molto tempo si è evitato accuratamente l’utilizzo del termine “conflitto”, figuriamoci “guerra”, per riferirsi agli eventi ucraini: fino a quando il concetto di “guerra ibrida” non ha guadagnato popolarità. Anche in queste settimane è stato utilizzato, ma quasi in termini rassicuranti: improbabile che la Russia proceda con un’operazione militare su vasta scala, suppongono vari osservatori, più probabile che dia seguito ad una strategia di guerra ibrida, che alterna e combina l’uso della forza militare con strumenti meno convenzionali quali l’uso della disinformazione e strumenti informatici, e che coinvolge una costellazione di attori non tradizionali, quali società private di sicurezza ed unità di difesa non integrate nelle forze armate regolari.

 

Se guardiamo alle truppe mobilitate e all’equipaggiamento militare presente al confine ucraino, gli scenari possibili possono essere molteplici. Di fronte all’incertezza del dato militare, ciò che sembra stabile ed inequivocabile è il dato politico: per Mosca la questione ucraina non è negoziabile. Non è una novità che l’allargamento a Est della NATO sia considerato inaccettabile dalla Russia. Il 17 dicembre scorso sono state rese pubbliche due bozze di trattato, elaborate da Mosca, che hanno cercato di arginare di nuovo questo processo: il primo documento esigeva “garanzie di sicurezza” nei rapporti bilaterali con Washington; mentre il secondo reclamava “misure di sicurezza” nei rapporti tra Mosca e membri dell’Alleanza Atlantica. Ciò che Mosca ha intimato riguarda l’esclusione di ogni possibilità di adesione dell’Ucraina alla NATO, la cessazione delle attività di assistenza militare e di sicurezza fornita al Paese e più in generale l’interruzione del dispiegamento di infrastrutture militari occidentali (basi e sistemi d’arma) nei territori ex-sovietici: in definitiva la riduzione della presenza della NATO in Europa orientale, incluso lo spiegamento di missili a raggio intermedio.

 

Queste richieste sono state presentate da Mosca come una reazione difensiva di fronte a segnali ritenuti preoccupanti, quali l’esercitazione Defender Europe 2021, volta a testare la capacità di risposta e di interoperabilità delle forze armate NATO (la più rilevante esercitazione militare in termini numerici dalla fine della guerra fredda) e l’acquisizione da parte dell’Ucraina di droni armati dalla Turchia, per un possibile impiego in senso offensivo nel Donbass. Questi eventi facevano a loro volta seguito ad un’impennata, tra la fine del 2019 e la primavera del 2020, delle violazioni dei cessate-il fuoco, e a una prima escalation militare russa al confine - ciò che aveva già fatto parlare di venti primaverili di guerra lo scorso anno.

 

È probabilmente proprio a quei mesi che risale la parziale virata del presidente ucraino rispetto alla NATO: eletto come candidato di basso profilo e della possibile pacificazione, fino ad allora Zelenskiy non aveva esplicitato le proprie aspirazioni atlantiste. Sempre a quei mesi risale l’ipotesi statunitense di offrire all’Ucraina un pacchetto straordinario di assistenza militare difensiva, ipotesi poi accantonata. Del resto l’elezione di Biden, che durante la campagna presidenziale si era dimostrato, tra i candidati, il meno timido sulla questione ucraina, aveva allertato la controparte. Anche se nei mesi successivi, proprio durante la crisi primaverile, proprio Biden si era espresso a favore di relazioni “stabili e prevedibili” tra Mosca e Washington, mostrandosi molto meno incline a contribuire a qualsiasi alterazione dello status quo.

 

I nuovi venti invernali di guerra non si sono sollevati dal nulla. Certo, gli Stati Uniti e l’Europa (pur sullo sfondo dello stallo degli accordi di Minsk) possono cercare di fermare l’escalation militare, ma sulla questione esiste un’asimmetria di interessi che dà vita a un gioco di minacce e contro-minacce in cui la posizione dominante è detenuta dai russi: in questi casi vince chi dimostra maggiore determinazione e la determinazione è data sia 1) dall’equilibrio degli interessi in campo – oltre che dall’equilibro delle forze, chiaramente a vantaggio della Russia – sia 2) dai segnali che si mandano all’avversario.

 

Dal primo punto di vista è chiaro che la posta in Ucraina per Mosca è molto più alta che per Stati Uniti e Europa, il che rafforza la posizione “negoziale” di Mosca. Dal secondo punto di vista, le recenti manovre militari, sbandierate come in uno spot televisivo, chiaramente veicolano un segnale di forte determinazione (oltre che intimidire l’avversario). Di fronte alla determinazione della leadership russa è poco probabile che la minaccia di sanzioni economiche (che hanno sempre tempi lunghi per risultare efficaci) possa raddrizzare, almeno sul breve periodo, la balance of resolve a vantaggio degli avversari di Mosca.

 

I contendenti stanno facendo un pericoloso ricorso a strategie di brinkmanship (manipolazione del rischio calcolato) e come sempre succede in queste situazioni, le cose possono pericolosamente sfuggire di mano.

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