
Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Stefano Palestini Céspedes
Docente di Scienza Politica e Relazioni Internazionali presso la Scuola di Studi Internazionali e il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Domenica scorsa, 3 dicembre, si è svolto un referendum in cui, secondo i dati ufficiali della Commissione Elettorale Nazionale, il 95% dei venezuelani ha votato per l'integrazione dell’Essequibo nel territorio nazionale. L'Essequibo è un territorio di 1.600 chilometri di superficie, che occupa un terzo del territorio nazionale della Guyana, uno stato sovrano che confina con il Venezuela.
La disputa territoriale tra il Venezuela e Guyana sull'Essequibo risale alle origini del Venezuela come repubblica indipendente. Nel 1814 la Gran Bretagna acquisì il territorio attraverso un trattato con l'Olanda, e iniziò, nei decenni successivi, lo sfruttamento dei ricchi giacimenti minerari. Ciò portò il Venezuela nel 1893 ad attivare la Dottrina Monroe, attraverso la quale gli Stati Uniti si impegnavano a difendere i territori delle Americhe da potenziali aggressioni esterne, principalmente europee. In una logica diplomatica tipica del diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti negoziarono direttamente con la Gran Bretagna – da potenza a potenza – scavalcando il Venezuela e ignorando i suoi interessi.
Le lamentele del Venezuela e la richiesta che l’Essequibo venisse inglobato nel proprio territorio nazionale continueranno nel ventesimo secolo anche dopo l'indipendenza della Guyana dal Regno Unito nel 1966.
Nel 2018, la Guyana ha presentato una petizione alla Corte internazionale di giustizia per risolvere il conflitto. Due anni dopo, la Corte si è dichiarata competente per il caso, ma il Venezuela ha rifiutato la giurisdizione della Corte. Il governo di Nicolás Maduro ha deciso di indire un referendum affinché il popolo venezuelano decida il destino dell’Essequibo e la sua eventuale integrazione nel territorio nazionale.
Il referendum del 3 dicembre si è svolto in condizioni irregolari. Il comitato elettorale – controllato dall’esecutivo da un decennio – ha indicato che 10,5 milioni di venezuelani hanno esercitato il loro diritto di voto, cosa che è stata messa in dubbio da vari osservatori. Da diversi anni, infatti, il Venezuela sta affrontando un massiccio esodo di venezuelani a causa di una crisi politica ed economica che va avanti dal 2014. Al di là delle irregolarità del processo elettorale, questo tipo di controversie territoriali non possono essere risolte attraverso un referendum in cui partecipa solo la popolazione di una delle parti in conflitto. Tuttavia, le autorità venezuelane hanno considerato il processo elettorale un successo e hanno provveduto a modificare la mappa nazionale integrando l’Essequibo nel territorio venezuelano.
Perché il governo Maduro ha fatto questo passo?
Ci sono diverse spiegazioni sul motivo per cui il regime venezuelano ha deciso di agire in modo unilaterale in un conflitto che si trascina da due secoli e rispetto al quale era già in atto un processo legale di risoluzione delle controversie.
La prima spiegazione ha a che fare con l'importanza economica dell’Essequibo legata all'estrazione di varie risorse naturali. Già nel ottocento la regione veniva sfruttata dalla Gran Bretagna per l'estrazione dell'oro. Queste miniere, ancora attive, rappresentano un'importante fonte di risorse per la Guyana. Nel 2015, la società americana ExxonMobil ha scoperto giacimenti petroliferi sulla costa dell’Essequibo. Il regime di Maduro, che si trova ad affrontare una profonda crisi economica e una crisi di produttività nel settore petrolifero, ha un evidente interesse a controllare la regione. Subito dopo la conoscenza dei risultati del referendum, lo Stato venezuelano ha ordinato alla compagnia petrolifera nazionale di avviare le operazioni di sfruttamento dei giacimenti.
In secondo luogo, Maduro si prepara ad affrontare le elezioni presidenziali del 2024. Il regime venezuelano corrisponde a un autoritarismo elettorale, in cui le elezioni si svolgono in un contesto squilibrato e in cui il governo manipola le istituzioni e reprime l’opposizione. Tuttavia, l’opposizione venezuelana ha una finestra di opportunità nelle prossime elezioni dato l’alto livello di sostegno di cui gode la propria candidata. In questo contesto, sembra che Maduro stia utilizzando la politica estera per mobilitare il sentimento nazionale (la reintegrazione del’ Essequibo è una faccenda molto sentita dai venezuelani) e quindi rafforzare la sua base di sostegno interno.
Un terzo aspetto ha a che fare con un sentimento di impunità da parte del regime di Maduro. Lo scorso ottobre, gli Stati Uniti hanno revocato praticamente tutte le sanzioni stabilite dal 2014 contro il regime venezuelano per violazioni della democrazia e dei diritti umani. La decisione di revocare le sanzioni non ha a che fare con il miglioramento della situazione democratica nel paese sudamericano, ma con la necessità da parte dell'amministrazione Biden di stabilizzare le forniture energetiche nel contesto di forte incertezza determinato dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Inoltre, Maduro ha il sostegno di Mosca e Pechino, che lo proteggono da ogni possibile azione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Scenari
Il Venezuela sta cercando di creare un di “fait acompli”, scatenando la comprensibile preoccupazione non solo della Guyana direttamente colpita, ma di tutti i paesi sudamericani. La Guyana si è rivolta al Consiglio di Sicurezza, così come al governo degli Stati Uniti. Inoltre, essa gode del sostegno formale della Comunità degli Stati dei Caraibi (CARICOM), un tempo alleata del Venezuela, e del Commonwealth of Nations. Uno scontro armato tra Venezuela e Guyana sarebbe catastrofico poiché si intensificherebbe rapidamente a livello globale date le alleanze che il Venezuela mantiene con Russia, Cina e Iran. Tuttavia, questo è uno scenario improbabile. L'America del Sud si definisce una regione di pace e gli Stati sudamericani utilizzeranno tutti i meccanismi diplomatici per evitare un'escalation del conflitto, come ha già indicato il presidente brasiliano Lula da Silva che condivide confini sia con il Venezuela che con la Guyana. Tuttavia, anche in assenza di un vero e proprio conflitto armato, l’ipotesi di un conflitto latente o “congelato” tra i due Stati costituirebbe un serio grattacapo per le capitali sudamericane, così come per Washington, e metterebbe a dura prova i già indeboliti meccanismi regionali e multilaterali che ha la regione.
In questo contesto, solo un cambio di governo – e di regime – in Venezuela potrebbe aprire una via d’uscita dal conflitto. Un futuro governo di opposizione, sostenuto da Washington e dalla maggioranza degli Stati sudamericani, potrebbe cercare una soluzione negoziale del conflitto attraverso canali legali e diplomatici, garantendo il rispetto di una futura sentenza della Corte internazionale di giustizia. Il problema è che, data l’attuale situazione in cui il regime di Maduro controlla tutte le principali istituzioni democratiche del Venezuela, un cambio di governo attraverso mezzi elettorali è un obiettivo molto difficile da raggiungere.