L'ambasciata Usa a Gerusalemme? Quando il cinismo postelettorale vince sui processi di pace


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
La scorsa settimana il Presidente americano Donald Trump ha firmato un “ordine esecutivo” che sancisce lo spostamento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. Così facendo ha infranto un tabù diplomatico per il quale Gerusalemme non viene riconosciuta ufficialmente come capitale dello stato di Israele da parte della comunità internazionale, in attesa della definizione del suo status giuridico all’interno di un accordo di pace con i palestinesi. In effetti, fin dal novembre 1947, una serie di risoluzioni ONU, sancisce che Gerusalemme abbia uno status a sé stante rispetto al resto del territorio circostante (corpus separatum) e sia amministrata dalle Nazioni Unite. Questa posizione è stata più volte reiterata negli anni, e il futuro di Gerusalemme rappresenta senza dubbio uno dei punti cruciali di ogni possibile accordo di pace.
Quali sono le motivazioni e le conseguenze della decisione di Trump? Lo spostamento dell’ambasciata è una delle tante promesse fatte lo scorso anno durante la campagna elettorale. Firmando l'ordine esecutivo, il Presidente quindi salda un debito elettorale, può celebrare il mantenimento di una promessa, e incassare un piccolo dividendo in termini di credibilità di fronte ai suoi elettori. Tanto più che i risultati concreti ottenuti dall’amministrazione Trump sono stati finora modesti: l’abolizione della riforma sanitaria voluta da Obama non è andata in porto; l’accordo con l’Iran relativo al programma nucleare (definito il peggior accordo della storia durante la campagna elettorale) è ancora in piedi; i vari divieti all’ingresso negli Stati Uniti di cittadini (proveniente da paesi) mussulmani sono stati impugnati da diversi Stati.
E’ vero, come enfatizzato da Trump, che la promessa di portare l’ambasciata a Gerusalemme è stata fatta, in passato, anche da Bill Clinton, George W. Bush, e Barack Obama. Anche quelle erano promesse elettorali, che poi però non hanno avuto seguito, a causa del protrarsi del conflitto israelo-palestinese, che consigliava di non aggiungere benzina sul fuoco. L’attuale presidente fa leva proprio su questo: al contrario dei miei predecessori, io ho avuto il coraggio di mantenere la mia promessa. Poco importa che la maggior parte degli americani sia contraria alla scelta o, con ancora maggiore probabilità, sia completamente disinteressata all’argomento. Di fatto, il conflitto israelo-palestinese non rappresenta più una priorità né per l’amministrazione americana né per le diplomazie occidentali.
Cosa accadrà adesso? All’atto pratico, la decisione di spostare la sede dell’ambasciata cambia ben poco. Il Segretario di Stato Rex Tillerson ha già fatto sapere che serviranno almeno tre anni per rendere effettivo il trasloco: è quindi possibile che Trump non sia nemmeno più presidente quando ciò avverrà. Il valore della scelta, così come il ruolo di Gerusalemme, è principalmente simbolico. Rappresenta il riconoscimento di uno status quo ormai decennale e, in un certo senso, la certificazione che le cose non cambieranno. Alcune conseguenze ci sono già state: proteste e scontri nei territori palestinesi; una nuova contrapposizione tra Europa e Stati Uniti e tra questi ultimi e il mondo arabo; un paio di razzi sparati da Hamas e l’inevitabile rappresaglia dell’aviazione israeliana; morti e feriti. Colpisce il cinismo con cui tutti gli attori coinvolti si muovono su questo palcoscenico, come fossero in qualche modo intrappolati in un gioco delle parti inutile e dannoso.
L’amministrazione americana compie una scelta che appare dettata esclusivamente da considerazioni di politica interna e dal bisogno del Presidente Trump di mostrarsi deciso e fedele alle proprie promesse. Hamas e i gruppi palestinesi più oltranzisti che incitano alla rivolta e riprendono il velleitario lancio di razzi verso le città israeliane, come se questo non avesse come unico risultato un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita della popolazione di Gaza. Il governo israeliano che risponde con i caccia-bombardieri anche quando i razzi cadono lontano dai centri abitati. Il copione è purtroppo lo stesso da molto tempo: nessuno è in grado di cambiarlo, nessuno offre una visione che vada al di là del mero tornaconto di breve periodo. Se l’obiettivo della scelta compiuta dal Presidente Trump fosse stato sparigliare le carte e far ripartire il processo di pace, davvero non sembra essere stato raggiunto: le posizione più estremiste vengono legittimate e una soluzione condivisa appare più lontana che mai.
Se proprio si sentiva il bisogno di intervenire, e ammesso che il mantenimento di una promessa elettorale sia un principio fondamentale a cui non si può derogare, allora si sarebbe potuto annunciare l’apertura di due ambasciate a Gerusalemme: una presso lo stato di Israele e una presso lo stato palestinese (che ancora non è riconosciuto dagli USA e da un gran numero di paesi). Una scelta di questo tipo sarebbe stata senz’altro rivoluzionaria, superando le prassi diplomatiche e indicando con forza che gli Stati Uniti (e molti altri paesi del mondo) credono ad una soluzione pacifica del conflitto, che possa finalmente sancire la convivenza tra i due popoli che si contendono la Città Santa. Ahimè, servirà aspettare ancora un po’.
di Stefano Schiavo professore di Politica Economica