La riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità e la trasformazione dell’area euro - Parte II


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
Andrea Fracasso, docente di Politica Economica e Direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento
Il dibattito sulla riforma del Mes è in corso in Europa ormai da un paio d’anni. Nel nostro Paese la discussione si è animata solo molto tardivamente e in modo disordinato, quando ormai tutti i partner europei (Italia inclusa) nel giugno 2019 avevano trovato un accordo di massima intorno a un compromesso ritenuto soddisfacente.
Nel precedente contributo sul tema (Qui prima parte), ho succintamente descritto gli elementi necessari a comprendere lo spazio di manovra nella proposta di trasformazione del Mes, approvata nel giugno 2019 e in attesa di firma da parte dei capi di stato e di governo e successivamente della ratifica da parte dei parlamenti nazionali.
La riforma rispetta il sistema di governance economica europea e assicura il principio che la condivisione dei rischi tra Paesi europei sia accompagnata da adeguati incentivi alla riduzione degli stessi rischi, così da evitare che si realizzino dei continui trasferimenti di risorse dai paesi solidi ai paesi fragili. La riforma, come detto, non cambia nemmeno l’idea che il Mes presti dei fondi in via eccezionale, fondi che debbono essere successivamente restituiti secondo un programma di rientro certo e condiviso.
In cosa consiste allora la riforma del Mes e perché viene così fortemente criticata in certi ambienti in Italia? La proposta di riforma, cui si è arrivati dopo un due anni di negoziati cui per l’Italia ha partecipato principalmente il governo gialloverde (Conte 1), interviene su molti circoscritti punti che proverò a illustrare.
E’ importante però iniziare con quanto non è la riforma. A differenza di quanto sostenuto da alcuni, infatti, la riforma non introduce nessun nesso automatico tra la richiesta di assistenza finanziaria di un Paese al Mes e l’imposizione di una ristrutturazione ordinata del suo debito pubblico (cioè una riduzione del valore e degli interessi del debito o un allungamento dei tempi di restituzione dei prestiti, negoziati tra lo stato debitore e i detentori dei titoli di Stato).
Questo automatismo, proposto in passato dai paesi del Nord Europa per disincentivare un ricorso opportunista alle risorse del Mes, avrebbe di fatto annullato la garanzia rappresentata dal Mes e avrebbe persino accresciuto il rischio di speculazione finanziaria; per questa ragione il proposito di inserire un automatismo è stato abbandonato durante i negoziati. Rimane invece vero che, perché il prestito del Mes possa essere concesso, vadano assicurate preventivamente sia la sostenibilità futura del debito pubblico del paese che chiede assistenza, sia la capacità del paese di restituire il prestito al Mes.
Qualora il debito non appaia sostenibile nel medio termine (nemmeno con l’aiuto del Mes) o la capacità di ripagare il prestito sembri incerta, il Mes può (senza automatismi e con discrezionalità) porre la ristrutturazione del debito pubblico come condizione per la successiva erogazione dell’assistenza. Questa non è una novità dovuta alla riforma, ma quanto già previsto dalle regole vigenti.
Il principio è che il Mes possa dare risorse soltanto a Paesi che possano credibilmente restituire i prestiti in futuro. Quale contribuente di un Paese prestatore, e finora l’Italia è stata un creditore, potrebbe volere il contrario? Una ristrutturazione del debito è un evento molto delicato per i seri danni che crea ai detentori dei titoli, siano essi risparmiatori, banche, assicurazioni o fondi pensione.
E’ quindi una soluzione che nessuno vorrebbe scegliere se non strettamente necessaria, come nel caso in cui il debito sia insostenibile e quindi destinato comunque a un default disordinato, carico di incertezza e foriero di forti discriminazioni tra i diversi creditori. Davvero non c’è soluzione alternativa al default disordinato o alla ristrutturazione ordinata del debito con l’aiuto del Mes? In linea teorica esiste la possibilità che il Paese in difficoltà venga salvato a spese dei contribuenti degli altri paesi. Una mutualizzazione delle perdite, si potrebbe dire.
Una alternativa che ovviamente è politicamente inapplicabile (per quale ragione i contribuenti dei paesi solidi dovrebbero accollarsi il debito pubblico dei paesi fragili, incapaci di prendere da soli le misure necessarie a stabilizzare la situazione?) e destinata a creare incentivi perversi, quindi esclusa dalla notte dei tempi dai Trattati europei. Una soluzione su cui non c’è da soffermarsi perché fuori dal campo di ciò che è politicamente possibile. Una soluzione che non poteva quindi rientrare nella riforma del Mes.
Se le novità della riforma non stanno nel quadro generale del Mes, esse riguardano alcuni dettagli. La riforma differenzia meglio le linee di finanziamento del Mes e vengono create delle alternative per permettere ai paesi di rivolgersi al Mes per chiedere piccoli aiuti preventivi, senza dover ricorrere a veri programmi di intervento e senza dover negoziare delle condizioni significative. Su questo punto non vi sono ovviamente perplessità perché è un ulteriore cambiamento a tutela di paesi che possano trovarsi in condizioni di difficoltà finanziaria senza colpa.
La riforma prevede inoltre un maggior coinvolgimento delle autorità del Mes nel giudizio sulla capacità del paese di restituire i prestiti del Mes e quindi, indirettamente, nella valutazione della futura sostenibilità del debito del Paese che richiede l’assistenza. Le regole in vigore prevedono invece un ruolo quasi esclusivo della Commissione e della Bce (insieme, se utile, al Fmi).
Il timore di alcuni è che le autorità politiche dei paesi che compongono il Mes possano perseguire obiettivi politici e possano essere più propense a chiedere una ristrutturazione del debito al fine di “insegnare una lezione” a un Paese in difficoltà, magari per il suo scarso impegno riformista. Le autorità dei Paesi che prestano, in fondo, devono motivare ai propri elettori le risorse indirizzate tramite il Mes ai paesi che chiedono assistenza ed è quindi comprensibile che possano essere più dure di quanto non lo siano gli organi tecnici della Commissione e della Bce.
E’ questa una preoccupazione sensata? In un’area economica integrata, la tentazione “punitiva” da parte di alcuni paesi è fortemente temperata dal fatto che una ristrutturazione del debito pubblico di un paese (specie se grande) ha forti ripercussioni su tutte le economie e sui risparmi di tutti i paesi dell’area valutaria, sconsigliandone quindi il ricorso. Purtroppo, questo effetto di temperamento è limitato in questo periodo perché, a seguito della crisi degli anni passati, si è venuta a creare una segmentazione finanziaria nell’area euro lungo i confini nazionali (con i francesi che prestano solo ai francesi, i tedeschi solo ai tedeschi e gli italiani solo agli italiani, per semplificare).
Questa segmentazione limita l’interdipendenza e fa sì che gli effetti della ristrutturazione del debito di un Paese siano più circoscritti all’ambito nazionale. E’ quindi plausibile pensare che fino a quando questo problema non verrà del tutto risolto, il rischio di una posizione politica più dura da parte dei paesi solidi nel Mes sarà più alto. Quanto alto? Impossibile da dire a priori, trattandosi di un vero e proprio processo alle intenzioni dei futuri governatori nel Mes. Di certo, nessun paese è al riparo dagli effetti della rinegoziazione del debito pubblico di un grande paese e quindi nessun paese ha incentivi a scegliere tale soluzione se non in casi strettamente necessari.
Storicamente, inoltre, la pazienza dei paesi europei si è dimostrata ben più alta di quella dei mercati: Spagna, Irlanda e Portogallo possono testimoniare al riguardo. Nella valutazione sulla sostenibilità del debito esistente, inoltre, la Commissione mantiene un ruolo principale, con un maggior coinvolgimento del Mes nella valutazione "nella prospettiva del creditore" della capacità di rimborso del debito verso il Mes; un ruolo maggiore del Mes starebbe anche nella negoziazione della condizionalità e nel successivo monitoraggio (mentre il Mes non dovrebbe entrare in conflitto con la Commissione sul piano del coordinamento delle politiche macroeconomiche).
Un altro elemento della riforma è la proposta di modificare le clausole dei contratti dei titoli di Stato (le cosiddette collective action clauses) per facilitare le operazioni di ristrutturazione ordinata del debito. Questa proposta crea motivi di preoccupazione perché essa potrebbe essere indicativa dell’intenzione di voler esercitare realmente l’opzione della ristrutturazione. Se da un lato ogni cambiamento per rendere più ordinata la ristrutturazione riduce incertezza, ingiustizie ed effetti collaterali, dall’altro proprio questo effetto migliorativo rende più appetibile l’ipotesi di ristrutturazione. Questa situazione rende ancora più forti gli incentivi dei Paesi fragili a non trovarsi nelle condizioni di essere minacciati da rischi di default, a ridurre il debito pubblico, a monitorare bene le banche e a promuovere la crescita economica. Incentivi a fare i propri interessi di medio termine, insomma.
Quali sono i timori allora? Il timore che circola nei paesi fragili, ancora una volta, è che il rendere più semplice l’ipotesi di ristrutturazione aumenti le probabilità che l’opzione possa essere scelta. Al di là di tale lecito timore, non ci sono reali obiezioni alle clausole in sè: chi nei Paesi fragili potrebbe apertamente auspicare che il proprio Paese conduca politiche irresponsabili che aumentano il rischio di default e per di più che quest’ultimo avvenga in un clima di disordine finanziario e senza regole certe? Un altro elemento di novità è che la riforma dà al Mes la possibilità di erogare prestiti di emergenza (backstop) al Fondo di risoluzione unico per la salvaguardia dei depositi dei correntisti delle banche in dissesto e in risoluzione.
Un fatto positivo in sé, ma che è proposto come elemento di salvaguardia residuale, all’interno di un meccanismo di risoluzione in cui gli azionisti e gli obbligazionisti delle singole banche (e con loro i fondi nazionali di garanzia, finanziati dalle banche stesse) sono i primi a pagare i costi dei dissesti. In alcuni paesi, come l’Italia, dove non si accetta il fatto che prestare alle banche e allo stato sia un’attività rischiosa e quindi anche foriera di perdite, questa eventualità spaventa. Timore aggravato dall’esperienza degli ultimi anni, in cui si sono osservate asimmetrie nel modo in cui le difficoltà degli istituti di credito e le proposte per aiutarli sono stati valutati dalle autorità europee, con un particolare rigore verso gli istituti della “periferia”. A ben guardare, però, non sono neppure le prospettate relazioni tra Mes e Fondo di risoluzione unico a costituire l’elemento di preoccupazione (Si noti, per inciso, che il fatto stesso che la garanzia del Mes sia solo residuale e temporanea dimostra lo scarso fondamento delle accuse che sui paesi dell’area euro venga scaricato il costo di sostenere le banche della Germania, in affanno).
La vera questione di fondo nel dibattito, quindi, è fuori dalla riforma del Mes in sé. Sta nel combinato disposto creato dalla riforma del Mes e dalla proposta di riforma della governance del sistema bancario europeo. Il problema specificatamente italiano, infatti, sta nel ruolo che l’enorme debito pubblico nazionale gioca, indirettamente, nel sistema bancario del paese. Un fattore che aumenta la vulnerabilità degli istituti bancari nazionali che detengono in grande quantità i titoli del paese. Infatti, tutti i paesi che ereditano dal passato elevati debiti pubblici e i cui titoli sono detenuti in grande parte dai sistemi bancari nazionali sono molto più esposti degli altri ai rischi di dissesto. Esiste un circolo vizioso tra la salute delle finanze pubbliche e le condizioni degli istituti bancari: una ristrutturazione del debito è esiziale per il sistema bancario nazionale ma un rapido disimpegno delle banche dall’acquisto del debito nazionale rende più difficile il finanziamento di quest’ultimo. Il disaccordo tra paesi europei riguarda proprio l’effetto combinato delle varie proposte di riforma (Mes e unione bancaria) che alcuni temono possano aumentare, invece che ridurre, il rischio di innescare e avvitarsi in una crisi.
Paradossalmente, proprio la consapevolezza dell’esistenza di un circolo vizioso tra finanze pubbliche e banche ha spinto i paesi europei a proporre nuove stringenti misure dirette a ridurre l’esposizione degli istituti di credito al debito pubblico del paese in cui sono collocati. L’idea è che a regime, cioè in un quadro in cui le banche diversificano i propri acquisti di titoli e questi sono dispersi un po’ su tutti gli istituti dell’area euro, il circolo vizioso sia fortemente ridotto e ciò renda possibile intervenire disgiuntamente sulle finanze pubbliche e sugli istituti creditizi in difficoltà, senza generare spirali autodistruttive. Il problema non sta in questo proposito, ma nel fatto che ancora si è molto lontani dalla situazione a regime.
Il possesso dei titoli di stato nazionali è fortemente concentrato negli istituti di credito nazionali, i debiti pubblici hanno livelli molto diversi tra i paesi, le economie nazionali affrontano condizioni molto diversificate di crescita, e non esistono ancora meccanismi europei di condivisione dei rischi finanziari (come la garanzia sui depositi), né di stabilizzazione dell’economia. L’imposizione di drastici cambiamenti nella regolamentazione dei settori bancari può quindi portare a effetti indesiderati nel breve termine e può anche contribuire a destabilizzare, invece che stabilizzare, la situazione. La questione su cui ci si accapiglia è proprio come gestire la transizione verso la condizione a regime. Gli italiani vorrebbero più protezione da parte dei paesi solidi in cambio di maggior impegno riformista, pur avendo dando scarsa prova di riuscire ad aggiustare le proprie magagne in passato. I paesi solidi vorrebbero invece più risultati ora (e quindi riforme immediate e drastiche), in cambio di più condivisione di rischi in un momento successivo. Scegliere chi debba venire prima tra solidarietà e responsabilità è sempre difficile ma, quando si toccano i mercati finanziari, è soprattutto un gioco pericoloso. La preoccupazione su questo punto è seria e motivata quindi.
Le autorità politiche italiane sono in grave difficoltà. La negoziazione sul Mes fatta in passato ha scongiurato l’introduzione dell’automatica ristrutturazione del debito, ma invece che intestarsene i meriti, sono le stesse forze politiche ad averla conseguita a mettersi di traverso all’accordo raggiunto. Tentare di bloccare la riforma del Mes per ottenere altre concessioni è pericoloso perché potrebbe far precipitare la percezione della stabilità del paese, creando le premesse di quanto si vorrebbe evitare. Le manifestazioni di contrarietà alla riforma già appaiono come segnali che vi sia una reale preoccupazione di un rischio di default (senza Mes) o di ristrutturazione ordinata del debito (con Mes); un rischio che, ovviamente, il governo nega categoricamente e che i mercati non sembrano ancora prezzare.
Più realisticamente, l’Italia dovrebbe riuscire a far passare il messaggio ai partner che l’accettazione della riforma del Mes richiede maggiori garanzie sulle caratteristiche e sulle tempistiche nella revisione degli altri aspetti importanti della governance europea. Ciò che serve sono soluzioni che riguardano l’intero sistema; soluzioni chiare, definite nei dettagli, utili ad affrontare le asperità del periodo di transizione verso il regime di equilibrio. L’Italia deve assolutamente impegnarsi a far chiudere tutte le riforme collegate, approvando presto un pacchetto comprensivo di risposte precisi alle questioni sul tavolo.
In questo processo sarebbe molto utile che nessuno giocasse al tanto peggio tanto meglio, in nessun paese. Sarebbe importante evitare di criticare la riforma del Mes su basi infondate, concentrandosi piuttosto sulla necessità di far entrare in vigore il riformato Mes raggiungendo anche un accordo sugli altri sfaccettati aspetti della riforma del sistema bancario europeo e più in generale della governance economica europea. In fondo, non va dimenticato neanche dai più pessimisti, l’assistenza del Mes potrebbe non essere mai necessaria se venissero date risposte serie e puntuali ai problemi dei singoli paesi (con il dispiacere dei paesi meno virtuosi e delle forze politiche che non vogliono affrontare i problemi) e se venisse presto realizzato quel pacchetto di riforme interdipendenti necessario a portare a regime la governance dell’area euro (con il dispiacere degli estremisti nei paesi solidi che sperano di non arrivare alla condizione a regime).