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La morte di Mugabe (da speranza dello Zimbabwe al crollo del Paese) e il futuro di Mnangagwa

Nel 1980 fu eletto primo presidente dello Zimbabwe. Le elezioni segnavano la fine di una guerra civile durata ben 15 anni e chiudevano il capitolo del dominio coloniale britannico in una nazione dove i neri superavano i bianchi in una proporzione di 20 a 1. Le promesse, però, in poco tempo vennero disattese e lo Stato africano entrò in crisi
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Di Orizzonti Internazionali - 14 settembre 2019

Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento

 

di Sara Lorenzini, docente di storia contemporanea presso la Scuola di Studi Internazionali e il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento

 

Con Robert Mugabe, morto il 6 settembre in esilio a Singapore, se n'è andata un'icona della liberazione nazionale africana. L'eroe che aveva traghettato lo Zimbabwe, già Rhodesia del Sud, verso l'indipendenza e fuori dal governo della minoranza bianca, è però personaggio molto controverso e che lascia un'eredità difficile. Quali sono le prospettive dello Zimbabwe alla fine di un'era? Presidente dello Zimbabwe per ben 37 anni, Mugabe faceva parte di un folto gruppo di dittatori africani in età, tutti rimasti saldamente al potere da oltre trent'anni. Angola, Benin, Cameroon, Chad, Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Gabon, Guinea, Costa d'Avorio, Malawi, Sudan, Togo e Uganda: è lunga la lista di paesi africani retti da governanti longevi che non fanno ben sperare per la salute della democrazia in Africa.

 

Robert Mugabe, come anche Kwame Nkrumah, Jomo Kenyatta o Nelson Mandela, aveva acquisito credibilità politica con la lunga prigionia sofferta durante il governo di Ian Smith negli anni Sessanta. Era diventato un punto di riferimento guidando dal Mozambico la guerriglia contro il regime razzista in Rhodesia e aveva poi acquisito credibilità come negoziatore delle condizioni di pace. Nel 1980 fu eletto primo presidente dello Zimbabwe. Le elezioni segnavano la fine di una guerra civile durata ben 15 anni e chiudevano il capitolo del dominio coloniale britannico in una nazione dove i neri superavano i bianchi in una proporzione di 20 a 1. Da subito, confortato dal risultato plebiscitario delle elezioni a favore del partito che guidava dal 1973, la Zimbabwe Africa National Union (ZANU), Mugabe impose l'identificazione di stato e partito su modello sovietico.

 

All'inizio del suo mandato, Mugabe rispose alle aspettative della popolazione povera fino ad allora esclusa dall'accesso alle risorse del paese, promuovendo sanità, educazione e attenzione alla condizione femminile. Mantenne anche la promessa di trattare in modo equo la popolazione bianca dello Zimbabwe, che gestiva una delle economie agricole più prospere dell'Africa. Avviò una politica di riconciliazione che gli guadagnò ampio consenso internazionale, perfino in occidente, nonostante i dubbi per il Marxismo sbandierato e per il netto schieramento con l'Unione Sovietica.

 

La situazione idilliaca però cambiò radicalmente nel febbraio 1983. Mugabe, deciso a sopprimere l'opposizione politica vicina a Joshua Nkomo (l'altro eroe nazionale alla guida del partito di opposizione), ordinò alla temuta Quinta Brigata, addestrata in Corea del Nord, di muovere contro la minoranza Ndebele della provincia meridionale del Matabeleland. Le violenze del Gukurahundi (così è chiamata la politica genocidaria attuata da Mugabe) spazzarono via più di 20.000 civili. Negli stessi anni, la politica economica discese la china dello sperpero, del clientelismo e della corruzione. La distribuzione di terre confiscate sulla base di criteri di clan e nepotistici contribuì al disastro economico, aggravato dal ritiro degli aiuti della Banca Mondiale.

 

La sconfitta a sorpresa (54% a 46%) nel referendum del 2000 orchestrato per aumentare potere presidenziale alimentò la vendetta contro gli oppositori politici, la corruzione e il clientelismo. Una volta paese prospero e ricco, lo Zimbabwe rovinò presto economicamente. Negli anni Duemila, la combinazione di cattiva gestione, smisurata corruzione e selvaggia repressione dell'opposizione politica aveva fatto capitolare il paese e tutti gli indicatori. Secondo le stime, nel 2007 l'80 per cento della popolazione adulta era disoccupata e l'aspettativa di vita era crollata a 36 anni. Mugabe, una volta eroe, con l'andare del tempo si era trasformato nel traditore di quegli ideali che avevano segnato la sua ascesa al potere.

 

Quando, nel 2017, un colpo di stato militare lo costrinse all'esilio assieme al suo gruppo di fedelissimi guidato dalla seconda moglie Grace, furono in pochi a non tirare un sospiro di sollievo. Il potere passò nelle mani del suo ex delfino, il vicepresidente Emmerson Mnangagwa.

 

Pur nella continuità delle linee tradizionali quanto a schieramento internazionale, in particolare per gli stretti e crescenti rapporti con la Cina, Mnangagwa ha promesso una politica di pace e riconciliazione. L'area in cui soprattutto si distingue dal predecessore, però, è la scelta per una politica economica aperta anche a investitori nuovi - inclusi i paesi con cui lo Zimbabwe ha dispute ancora irrisolte, territoriali o sui diritti umani. Molto resta da compiere però nell'affrontare la corruzione endemica e garantire libertà di espressione, diritti ed equità.

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