La libera circolazione nell'Unione europea ai tempi del coronavirus: l'erba del vicino è sempre meno verde?


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
Luisa Antoniolli, docente della Scuola di studi internazionali e Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento
Fra i numerosi effetti collaterali della pandemia di Covid19 vi è stata anche la temporanea implosione del sistema di regole che garantiscono la libera circolazione all’interno dell’Unione europea, fatto che ha non solo rilevantissimi effetti pratici per cittadini ed imprese, ma mette in discussione anche alcune delle basi fondamentali del processo integrativo europeo. Fin dagli anni ’50, quando venne adottato il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE), la costruzione europea si è fondata su quattro libertà fondamentali: la libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali. L’accento era essenzialmente sulla dimensione economica di queste libertà, considerate come i fattori di produzione necessari per garantire l’esistenza ed il funzionamento del mercato comune (perciò, ad esempio, inizialmente la libertà di circolazione delle persone fu garantita solo ai lavoratori).
Tuttavia, fin dall’inizio il progetto europeo si basò sull’idea che nel lungo periodo l’integrazione economica avrebbe condotto anche ad un’integrazione politica, e quindi le libertà economiche di circolazione furono sempre connotate da un’intrinseca dimensione politica, che le faceva assurgere a principi fondamentali dell’ordinamento. La migliore definizione di questa visione si trova nella Dichiarazione Schuman (Ministro degli esteri francesi, e fra i principali artefici del progetto europeo), di cui quest’anno ricorre il 70esimo anniversario: “L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. (…) Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace”.
Nei decenni successivi questo disegno fu progressivamente (ma solo parzialmente!) messo in atto con una vastissima gamma di interventi, che spaziano dall’istituzione della cittadinanza europea, alla creazione di uno spazio di libera circolazione delle persone all’interno delle frontiere europee (la cd. area Schengen), e numerose misure per la circolazione delle merci e dei servizi, legate all’instaurazione del mercato interno e dell’Unione economica e monetaria. Sebbene già prima della pandemia vi fossero notevoli problemi nel funzionamento di alcuni di questi meccanismi (basti pensare alle chiusure negli anni dopo il 2011 dei confini nazionali all’interno della zona Schengen per impedire il transito di migranti richiedenti asilo dai paesi di primo arrivo, in primis l’Italia e la Grecia), la crisi da essa causata ha avuto effetti molto più gravi, sia per l’ampiezza delle chiusure, che per la macroscopica e trasversale violazione degli standard europei, che stabiliscono dettagliatamente i fattori che consentono agli Stati di prevedere deroghe alle libertà fondamentali (fra cui anche la sanità pubblica, oltre alla sicurezza e all’ordine pubblico).
Fin dalle prime settimane successive all’arrivo dell’epidemia in Europa, molti Stati membri hanno deciso una chiusura unilaterale delle frontiere, riguardante prima di tutto il transito delle persone, ma anche delle merci. La Commissione europea è stata colta di sorpresa da questo profluvio di provvedimenti unilaterali e scoordinati, ed ha quindi tentato di mettere un po’ di ordine attraverso l’adozione di una serie di atti, a partire dal mese di marzo. Ad esempio, a metà marzo una Comunicazione ha cercato di uniformare le limitazioni ai viaggi non essenziali da paesi terzi verso l’UE (che dovrebbero applicarsi fino a metà maggio). Successivamente, alla fine del mese, sono state adottate delle linee-guida per consentire il rimpatrio di cittadini UE che si trovano all’estero, e per garantire la mobilità di personale con funzioni essenziali; il documento fornisce alle autorità di frontiera delle indicazioni in merito ai criteri per effettuare i respingimenti (che devono essere proporzionati e non discriminatori) e i controlli in uscita, garantire la sicurezza delle frontiere, agevolare il transito ed il rimpatrio delle persone.
Per quanto riguarda il transito delle merci, anch’esso un aspetto fondamentale dello spazio europeo, la Commissione ha adottato a metà marzo degli orientamenti per garantire la disponibilità di beni e servizi essenziali (come prodotti alimentari e forniture mediche), cui è seguita il 24 marzo una Comunicazione relativa all’instaurazione di “corsie verdi” (“green lanes”) per il trasporto terrestre (stradale e ferroviario), marittimo ed areo di qualsiasi tipo di beni. Nelle intenzioni della Commissione, l’attraversamento di questo tipo di valichi di frontiera “non dovrebbe richiedere più di 15 minuti alle frontiere interne terrestri, compresi i controlli e lo screening sanitario dei lavoratori del settore dei trasporti”.
Sebbene la situazione di completo caos sia gradualmente rientrata, è chiaro che nei fatti l’attuazione di questi presidi è problematica e complessa. Assistiamo in questi mesi al triste spettacolo per cui, rovesciando l’adagio popolare, l’erba del vicino è sempre meno verde: per quanto grave possa essere la situazione in un dato paese, uno sciagurato riflesso condizionato porta a ritenere che il pericolo venga da fuori, e che solo chiudendo le frontiere si possa proteggere il paese ed i suoi cittadini. Siamo talmente pronti a questo gioco, da applicarlo anche all’interno di uno stesso paese, come dimostra la tragicomica saga delle chiusure ordinate o minacciate da varie Regioni, spesso in plateale contrasto con le regole nazionali. Pronti a spaccare il capello, persino alcuni Sindaci si sono mossi per chiudere unilateralmente i propri comuni.
A livello europeo, sebbene sulla carta i principi e le regole relative alla libera circolazione di persone, merci e servizi rimangano la base dell’ordinamento europeo, nei fatti si sta assistendo a limitazioni che rischiano di portare ad un processo di erosione, che per giunta funziona a macchia di leopardo, con scelte nazionali più o meno idiosincratiche, in cui la Commissione cerca faticosamente di mettere ordine. In questa partita è in gioco la capacità dell’Unione europea di preservare il mercato interno, che mai come in questo momento di profonda crisi economica è cruciale per assicurare il benessere dei cittadini e delle imprese europee. Ma è in gioco, soprattutto, l’idea di Unione europea come spazio aperto, in cui le barriere sono eliminate, e le frontiere sono spostate verso l’esterno dell’Unione, non al suo interno. La progressiva erosione di questa apertura mina non solo la capacità di movimento, ma anche l’idea che l’Unione sia, secondo il suo motto, “unita nella diversità”, e che di fronte alla terribile sfida del coronavirus, che mette a repentaglio la salute, la sicurezza ed anche il futuro dei suoi cittadini, sia capace di dare una risposta coordinata e unitaria.