La disputa commerciale tra Stati Uniti e Cina: ragioni e torti delle parti in conflitto


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Andrea Fracasso, direttore della Scuola di Studi Internazionali e professore di economia internazionale del Dipartimento di Economia e Management
Dall’inizio del proprio mandato l’Amministrazione Trump ha imposto dazi sulle importazioni di pannelli solari, lavatrici, acciaio e alluminio provenienti da (quasi) tutto il mondo. A partire dalla prima metà del 2018, l’attenzione dell’Amministrazione si è concentrata principalmente sulla Cina con un aumento del 25% dei dazi su un pacchetto di 1100 prodotti cinesi importati per un valore di 50 miliardi di dollari (cui la Cina ha risposto con dazi sui beni americani esportati), cui sono seguiti dazi aggiuntivi del 10% su 200 miliardi di dollari su ulteriori 6000 prodotti importati dalla Cina. Venerdì 10 maggio questi dazi sono saliti al 25%, portando così sopra al 50% la quota di beni cinesi esportati negli Stati Uniti sottoposti a dazi superiori al 20%. Secondo un tweet di Trump del 5 maggio, in assenza di intese tra Stati Uniti e Cina su un elevato numero di aspetti contesi, ulteriori tariffe su più di 320 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina potrebbero essere presto imposte. La reazione Cinese consisterà in una ritorsione sui beni esportati dagli Stati Uniti in Cina, riducendo così il commercio bilaterale e alterando quello internazionale (come dimostra l’aumento di importazioni di acciaio nell’UE dopo la chiusura statunitense).
L’accresciuta contrapposizione tra Stati Uniti e Cina sul piano del commercio estero è una questione complessa su cui occorre fare luce senza schemi di lettura preconcetti. Nel tentativo di fare ordine, in quanto segue cercherò di ripercorrere le argomentazioni che l’Amministrazione americana ha proposto per motivare il ricorso alle misure restrittive nei confronti dei prodotti importati dalla Cina.
Il Presidente Trump lamenta da tempo il disavanzo commerciale molto ampio che gli Stati Uniti hanno con il resto del mondo, più della metà del quale nei confronti della Cina. In effetti il disavanzo americano con l’estero nel commercio di beni ha raggiunto nel 2018 il 4% del Pil, compensato solo in parte da un avanzo nei servizi pari all’1,3%. Il Presidente Trump lamenta anche il contrarsi dei settori manifatturieri in America, il cui peso in termini di occupati è in progressiva e irriducibile riduzione da decenni (- 25% dal 1995 al 2016, quanto raggiunge la quota del 12,3% degli occupati complessivi). Entrambe le osservazioni sono sostanzialmente corrette. E’ la loro valutazione che richiede qualche riflessione.
Certamente lo squilibrio nel commercio con l’estero provoca una dipendenza dei consumi americani dalla produzione straniera e richiede che gli Stati Uniti riescano continuamente a finanziarsi dall’estero. Il disavanzo con l'estero americano deriva dal fatto che la spesa per investimenti in America eccede largamente i bassi risparmi interni.
Con o senza Cina, questo squilibrio verso il resto del mondo è il frutto del funzionamento dell’economia americana. A meno di una forzatura politica per costringere le imprese cinesi a comprare dagli Stati Uniti invece che dall’Europa o dall’Asia (punto della trattativa sino-americana in corso) oppure a meno di un notevole aumento dei dazi verso tutti i paesi (vedi sopra), il disavanzo americano verso il resto del mondo non può ridursi senza che aumentino i risparmi americani. I bassi risparmi sono tuttavia alla base del modello che ha generato crescita del Pil e dell'occupazione di questi decenni. Una crescita che non ha beneficiato tutti in egual misura, creando disuguaglianze tra regioni e individui in America, ma che ha permesso l’espansione dell’economia. Ciò che importa è quindi la contraddizione tra l’applauso per la performance di crescita americana e la condanna degli squilibri internazionali che a essa si accompagnano. La Cina è da almeno tre decenni parte di un sistema simbiotico tra i due paesi, un sistema che ha consentito la crescita di consumi e occupazione senza inflazione in America e il rapidissimo sviluppo (trainato da investimenti ed export) in Cina. E’ anche importante ricordare che lo squilibrio commerciale è in parte dovuto alle operazioni condotte dalle multinazionali americane all’estero: esse riducono l’export americano ma portano reddito attraverso i dividendi rimpatriati in America. Certamente esiste una differenza tra i salari che potrebbero essere pagati per la produzione in America e i dividendi degli azionisti delle imprese multinazionali. Lo squilibrio rimanda quindi a questioni di giustizia distributiva interna agli Stati Uniti, ma queste non sono direttamente menzionate dall’Amministrazione.
Il Presidente Trump, fin dalla campagna elettorale, ha inoltre osservato come la manifattura americana sia in una fase di contrazione permanente.
Questo può rappresentare un problema di specializzazione produttiva nel medio termine, in quanto la manifattura è associata a guadagni di produttività e a investimenti innovativi, con effetti indiretti positivi su molti settori. Il minor peso della manifattura in America è tuttavia il risultato di una più efficiente divisione del lavoro col resto del mondo: le attività di produzione fisica dei prodotti a minor valore aggiunto vengono realizzare nei paesi meno avanzati, mentre i servizi ad alto valore aggiunto (come finanza, assicurazione, design, ecc) rimangono negli Stati Uniti. In questo schema la Cina ha rappresentato un ambiente a basso costo del lavoro in cui le imprese americane hanno potuto portare diverse fasi della produzione (quelle in cui il lavoro viene utilizzato intensamente, come per esempio l’assemblaggio), trattenendo le fasi a più alto valore aggiunto negli Stati Uniti, dove il capitale umano e la protezione della proprietà intellettuale sono maggiori. Questo ha arricchito gli Stati Uniti come paese, ma ha impattato sulla distribuzione del reddito tra individui e regioni americani, mettendo sotto pressione i lavoratori meno specializzati. Ecco quindi che la retorica di Trump sul “ritorno” della manifattura (reshoring) tocca un problema sentito da alcuni lavoratori in alcuni settori in alcune regioni americane, ma non è a costo zero. La redistribuzione delle attività produttive nel mondo è inoltre avvenuta grazie a un insieme di fattori di natura globale, e non solo a causa di comportamenti cinesi censurabili. Nuove strategie di business (rese possibili dal controllo a distanza offerto dalla nuova tecnologia delle telecomunicazioni), accordi internazionali capaci di valorizzare i contratti commerciali tra imprese stranieri, e investimenti finanziari transnazionali più liberi sono fattori chiave per comprendere l’evoluzione della globalizzazione. La Cina è quindi “responsabile” di aver scommesso sull’integrazione della propria economia nel mondo e di aver operato in modo strategico. Gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali sono responsabili di non aver pianificato in maniera adeguata l’integrazione del gigante asiatico, caratterizzato da un settore pubblico che esercita un forte ruolo nell’economia. Ciò è avvenuto sia perché alcune grandi imprese occidentali, in previsione di grandi guadagni, hanno sostenuto la concessione di un trattamento favorevole alla Cina e ad altri paesi emergenti, sia perché alcuni paesi (per esempio la Germania) hanno trovato nella Cina un formidabile importatore, prima che un concorrente. Va inoltre ricordato che, anche se gli sforzi statunitensi per ripotare in patria un po’ della produzione manifatturiera avessero successo, questa potrebbe non tradursi in grandi guadagni in termini di occupazione dato il ricorso sempre maggiore a robot e innovazioni tecnologiche che risparmiano sul lavoro. L’impatto di un possibile reshoring sui problemi distributivi interni, quindi, non è chiaro.
Un’altra motivazione addotta dagli Stati Uniti per spiegare l'irrigidimento della propria posizione verso la Cina è l'accusa che non rispetti lo stato di diritto e le norme internazionali che regolano l’attività delle imprese straniere in Cina, che alimenti una competizione sleale nel mondo a causa di massicci aiuti pubblici alle imprese, e che riservi un trattamento privilegiato alle imprese cinesi in patria.
Gli USA lamentano quindi che l'integrazione cinese nel network di produzione globale sia stata più rapida di quanto non sia stata l’adozione consuete prassi di concorrenza leale e di standard sociali, ambientali, fiscali, legali e istituzionali. Tutto ciò ha rappresentato un fardello per la competitività delle imprese occidentali, esposte a costi maggiori per l’adeguamento a tali standard e prive degli aiuti di stato cinesi. Questa accusa è molto ragionevole ed è stata ripresa dall’UE in questi ultimi due anni. Essa ha condotto alla elaborazione nel marzo 2019 di una nuova “prospettiva strategica”, volta a sviluppare “relazioni economiche più equilibrate e reciproche” tra UE e Cina. Questa quanto mai sensata critica si scontra tuttavia con alcuni atteggiamenti contraddittori da parte degli Stati Uniti. In primo luogo gli USA non hanno cercato di ostacolare che le imprese americane localizzassero la produzione in paesi dai bassi standard produttivi. Inoltre, gli USA reagiscono ora alle mancanze cinesi attraverso l'adozione di misure difensive (dazi alle importazioni) che, per dimensioni e copertura, sono a loro volta lesive della concorrenza. Gli Stati Uniti sono poi i primi a spingere per la non adozione di più stringenti impegni in ambito ambientale, legittimando così l'idea che esista una alternativa al ribasso rispetto all’obiettivo di una maggiore sostenibilità sociale e ambientale. La strategia conflittuale americana sembra quindi mirata a risolvere alcune criticità in specifici settori e ambiti di interesse degli Stati Uniti (agricoltura, barriere non tariffarie, proprietà intellettuale, servizi finanziari, trasferimento di tecnologie, stabilizzazione valutaria), più che a ottenere un maggior impegno cinese in termini di standard. Non per nulla il confronto tra USA e Cina avviene attraverso schermaglie tariffarie e negoziazioni bilaterali, adatte a raggiungere compromessi tra gli interessi dei due paesi e poco utili a ridefinire il ruolo della Cina nel commercio internazionale. Così facendo il confronto diventa una prova di forza che erode il sistema internazionale, basato su regole e multilateralità, adottato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale proprio al fine di evitare che la cooperazione economica internazionale si basi su rapporti “speciali”, squilibrati e persino contraddittori.
Gli Stati Uniti lamentano anche il trattamento di favore riservato in Cina alle proprie imprese (certificato dall’OECD nel 2016) e le scarse opportunità offerte alle imprese straniere in Cina (per esempio nell’accesso agli appalti pubblici, ai finanziamenti, alla protezione giuridica, alle risorse naturali, ecc). Anche queste accuse sono fondate: molti sono i paesi che accusano la Cina di scarsa reciprocità nell'apertura dei mercati e di trattamento preferenziale verso le imprese nazionali. In merito ai servizi finanziari, per esempio, la Commissione Europea scrive nel documento citato in precedenza che “le imprese FinTech, le società di pagamento online, i fornitori di carte di credito, le banche e le imprese di assicurazioni cinesi sono sempre più presenti nell'UE, mentre agli operatori europei viene negato l'accesso al mercato cinese.” E’ quindi imperativo per la comunità internazionale spingere la Cina a modificare normative e prassi amministrative per regolamentare (e diminuire) i sussidi industriali alle imprese, per migliorare l’accesso al Public Procurement (appalti pubblici) e per creare maggior opportunità in Cina per le imprese straniere. Il fatto che, nonostante l’esistenza di un consenso globale su questo, gli Stati Uniti preferiscano intraprendere negoziazioni bilaterali e schermaglie tariffarie rafforza la preoccupazione che essi stiano cercando più un trattamento preferenziale per sé che un cambiamento della Cina nei confronti di tutti. Rispondendo con azioni distorsive alle distorsioni cinesi, inoltre, gli Stati Uniti finiscono per creare molteplici effetti non desiderati. Per compensare gli effetti negativi delle contromisure prese dalla Cina contro il settore agricolo americano, per esempio, l’Amministrazione Trump ha dovuto offrire 12 miliardi di dollari di aiuti agli agricoltori e questa sarà una ulteriore distorsione per gli altri paesi. In modo analogo, secondo uno studio del Peterson Institute for International Economics del dicembre 2018, l’applicazione delle tariffe americane sulle importazioni di acciaio (da tutto il mondo) ha aumentato il prezzo dell’acciaio del 9% e ha portato alla creazione di 9.000 posti di lavoro negli USA: questo ha però anche comportato un costo per i consumatori di acciaio di circa 650mila dollari per ogni posto di lavoro creato. Un contro salato, ma difficile da percepire.
Un'altra accusa di competizione sleale alla Cina riguarda la scarsa lotta contro la contraffazione, l’azione sistematica di appropriazione della tecnologia straniera, e la tolleranza verso il furto della proprietà intellettuale delle imprese. Per quanto attiene la contraffazione, le stime americane suggeriscono che la Cina (includendo Hong Kong) sia l’origine dell’87% dei beni piratati e contraffatti che entrano negli USA, creando un danno di circa 25 miliardi di dollari (lo 0,15% del Pil). Riguardo il furto di proprietà intellettuale da parte della Cina l’accusa è simile; già il Presidente Obama aveva firmato l’apposita legge Defend Trade Secrets Act nel 2016. La Commissione americana istituita nel 2018 per studiare il fenomeno ha tuttavia concluso di non essere in grado di stimarne la dimensione, argomentando di ritenerlo importante sulla base di una (vaga) evidenza aneddotica. Una posizione che non sminuisce la gravità del problema ma che complica la difesa della posizione presso l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio). Oltre al mancato rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, gli Stati Uniti accusano le imprese cinesi di rubare i segreti industriali americani attraverso attacchi cibernetici e di “costringere” le imprese straniere che intendono aprire filiali o fare affari in Cina a cedere parte delle proprie conoscenze.
Quest’ultima prassi di trasferimento tecnologico forzato (descritta in un rapporto del Congresso americano del 6 maggio) è nota da tempo e tollerata dalle imprese occidentali desiderose di accedere al mercato cinese; secondo l’Amministrazione sarebbe divenuta ormai troppo insidiosa per essere ignorata. Essa infatti affiancherebbe due ambiziosi piani di sviluppo economico e industriale cinesi (Made in China 2025 e Artificial Intelligence 2030) che preoccupano gli Stati Uniti. Questi piani intendono portare rapidamente la Cina a controllare le tecnologie chiave dei prossimi decenni. Il Piano Made in China 2025 prevede che la Cina raggiunga il primato in dieci aree della manifattura high-tech (information technologies, robotica, attrezzature aerospaziali, imbarcazioni hi-tech, veicoli a risparmio energetico, industria biomedicale).
Per quanto attiene alle reti 5G, cinque sono i leader che detengono il 75% delle quote del mercato globale: Huawei e Zte (cinesi), Nokia e Ericsson (europee), e Cisco (americana) attiva però solo in un comparto del settore e non nelle antenne radio. Huawei è già stata bandita nella realizzazione del 5G negli Stati Uniti che fanno pesanti pressioni ai partner occidentali per fare lo stesso. La preoccupazione americana è duplice. In primo luogo, questi settori rappresentano la punta di diamante dell’economia dei prossimi decenni ed è quindi cruciale mantenere una posizione di vantaggio nella loro produzione. Per le intrinseche caratteristiche di queste tecnologie, in particolare, è fondamentale per i paesi arrivare primi nello sviluppo e nell’acquisizione di quote di mercato mondiali. La supremazia nei settori innovativi permette infatti di stabilire gli standard internazionali: un aspetto fondamentale che sta alla base del (fallito) tentativo di accordo commerciale tra USA e UE, e che sta spingendo ora l’UE a stringere accordi di partenariato economico con paesi come Canada e Giappone. In secondo luogo, gli Stati Uniti sono consapevoli che dipendere da tecnologie fornite da imprese basate in paesi non democratici o dove lo stato di diritto è debole pone dei gravi rischi per la sicurezza nazionale. Questi settori sono infatti fondamentali per il funzionamento del sistema economico (industria 4.0, IA. IoT), sociale (5G network, energia, privacy) e politico (fake news) dei paesi avanzati. Per questa stessa ragione gli Stati Uniti hanno stretto le maglie degli investimenti cinesi in America al fine di evitare che la tecnologia venga “catturata” (oltre che dalle imprese statunitensi in Cina tramite furti e trasferimento forzato alle autorità), anche con l’acquisizione delle imprese americane negli USA da parte delle compagnie cinesi sostenute dallo Stato.
L’UE condivide queste preoccupazioni e desidera anche recuperare il ritardo tecnologico accumulato in molti settori. La Germania, per esempio, sta elaborando una ambiziosa (e controversa) strategia industriale per il 2030 e ha scritto un manifesto congiunto con la Francia per orientare l’azione della prossima Commissione europea in termini di politica industriale. Intelligenza artificiale, automobili senza pilota, celle per batterie elettriche (per le quali nel 2018 è stato adottato un piano d'azione strategico), reti 5G e robotica appaiono tra i principali settori di interesse. Allo stesso modo, l’UE sta spingendo per l’adozione di misure più restrittive di valutazione e autorizzazione (screening mechanism) degli investimenti diretti esteri cinesi in Europa. Se la preoccupazione per l’esistenza di rischi alla sicurezza nazionale è sensata e condivisa, questa argomentazione non è tuttavia abbastanza forte per spiegare l’adozione così ampia di misure commerciali restrittive. Se il concetto di sicurezza inizia a essere inteso dalle autorità americane in senso così ampio, allora l’uso di tale motivazione per imporre restrizioni al commercio internazionale può diventare sistematico e alterare gravemente gli equilibri mondiali e il sistema multilaterale. Sembra per esempio che il Presidente Trump stia valutando se e quali dazi imporre sulle importazioni di automobili dall’Europa facendo ricorso proprio a questa giustificazione, creando così una restrizione commerciale tra paesi della Nato legata a problemi di sicurezza nazionale.
Questo scenario crea opportunità e difficoltà per l’Unione Europea e per i singoli paesi in essa. Su questo ritornerò in un futuro contributo.