La crisi iraniana dopo l'uccisione di Soleimani: tra le tensione con gli Usa e le proteste interne di chi vuole cambiare


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Pejman Abdolmohammadi
Docente di Storia dei Paesi Islamici della Scuola di Studi Internazionali e del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento
La Repubblica Islamica dell’Iran sta affrontando, sul fronte tanto esterno, quanto interno, una vera e profonda crisi: l’uccisione del generale Qasem Soleimani, avvenuta, per mano statunitense, lo scorso 3 gennaio in Iraq, ha provocato un ulteriore indebolimento strutturale dell’Iran. Soleimani, infatti, non era solo un militare di alto rango dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran), ma lo stratega principale della Repubblica Islamica, a vertice del cosiddetto triangolo sciita (Iraq, Libano, Siria, Yemen). In altri termini, Soleimani era l’uomo chiave che connetteva e guidava la coalizione, a maggioranza sciita, dal Golfo persico al Mediterraneo. Pertanto la sua eliminazione da parte dell’amministrazione Trump, sotto la diretta supervisione del Segretario di Stato Mike Pompeo, rientra in una scelta consapevole e strategica di Washington. Lo scopo principale degli Stati Uniti, infatti, è quello di contenere e indebolire la Repubblica Islamica nella regione mediorientale.
Gli Stati Uniti, a partire dal 2017, con la Presidenza Trump, hanno completamente rovesciato, rispetto al periodo a guida Barack Obama, la strategia di azione per il Medio Oriente. Il leader democratico aveva tentato di aprirsi alla Repubblica Islamica e, contestualmente, allentare la stretta alleanza con Israele e Arabia Saudita, mentre Trump, al contrario, ha, da subito, puntato a rafforzare i legami di Washington con Tel Aviv e Riad, sottoponendo, invece, Teheran alla massima pressione. Il primo importante esempio di questo cambiamento si è concretamente palesato quando Washington si è unilateralmente ritirato dall’accordo nucleare (JCPOA) raggiunto nel 2016.
Un accordo importante, frutto di una complessa operazione diplomatica mondiale che aveva coinvolto notevoli attori globali, quali la Cina, l’UE, la Russia e gli stessi Stati Uniti. Il ritiro di Washington ha, di fatto, neutralizzato gli effetti di questo accordo che, sotto la dottrina Obama, mirava alla reintegrazione della Repubblica Islamica nel cosiddetto mondo economico occidentale. Inoltre, Washington, negli ultimi tre anni, ha imposto importanti sanzioni economiche nei confronti di Teheran, nel settore energetico come nei vari settori industriali e commerciali, prostrando la potenza asiatica, sia sul piano economico, sia sotto il profilo logistico.
Una delle più rilevanti conseguenze di questa politica è stata, nell’ultimo anno, la svalutazione della moneta iraniana (Rial) del 300%. Il grave indebolimento economico di Teheran ha negativamente influenzato anche l’azione di politica estera dell’Iran, come si può comprendere dalle difficoltà che, attualmente, la Repubblica Islamica sta incontrando per cercare di mantenere il proprio controllo sul cosiddetto triangolo sciita. Parallelamente a questo declino sul fronte esterno, Teheran deve affrontare il crescente malcontento interno: dal 2017 ad oggi, almeno per tre volte, si è assistito a importanti manifestazioni antigovernative di piazza. Manifestazioni che esprimono, in primo luogo, un importante disagio economico e sociale, ma anche una richiesta di libertà civili e politiche.
Con il passare del tempo, le proteste sembrano radicalizzarsi e la società iraniana diventa sempre più polarizzata tra chi, nelle piazze, invoca a gran voce la cessazione dell’attuale regime e chi, invece, la parte probabilmente minoritaria, ma più organizzata, sostiene l’odierno potere politico. Questa parte della società iraniana si è vistosamente manifestata, con una presenza massiccia, in occasione dei funerali del generale Soleimani. Tuttavia, negli ultimi giorni, in particolare dopo l’abbattimento dell’aereo Ucraino in Iran, sono state evidenti le proteste contro la Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, del quale si invocavano le dimissioni, in quanto capo delle forze armate. I manifestanti hanno poi bruciato le immagini del generale Soleimani e chiesto la fine della Repubblica Islamica.
Le nuove generazioni, in particolare le donne, sono le protagoniste dei movimenti sociali che chiedono un cambiamento radicale nel paese. La loro visione in politica estera è diametralmente opposta ai loro padri, di forte convinzione anti-americana e, da parte di questi giovani, si chiede, anzi, un reapprochment con Washington.
Questo si è meglio palesato al mondo quando, pochi giorni fa, in varie manifestazioni studentesche, gruppi di giovani, con un gesto dal forte significato simbolico, hanno attentamente evitato di calpestare la bandiera statunitense che il governo di Teheran aveva riprodotto sulle strade, di modo che fosse ripetutamente calpestata dalla folla. I prossimi mesi saranno cruciali per il futuro dell’Iran; gli ultimi avvenimenti, congiuntamente alla situazione politico-economica del Paese, hanno provocato un nuovo sbilanciamento degli equilibri interni dell’Iran. Bisognerà quindi attendere per scoprire se i movimenti civili riusciranno, dalla base, ad organizzarsi meglio e a creare nuove leadership, al fine di canalizzare le proteste in modo più organico, o se, al contrario, l’attuale regime riuscirà nuovamente a reprimere i fermenti in corso nel tessuto civile del paese.
In tutto questo, di certo, gli avvenimenti di politica estera eserciteranno un ruolo fondamentale. La rielezione o meno di Trump sarà rilevante al fine di valutare quanto le pressioni di Washington su Teheran saranno durature. Sembra che in questo momento, più che mai, il destino dell’Iran dipenda sia dai suoi giovani nelle piazze, sia dal tipo di pressioni in arrivo dall’esterno. Se alle prossime elezioni presidenziali americane si registrerà una vittoria del fronte democratico, ci possiamo aspettare una diminuzione della pressione americana e un ritrovato apporto di ossigeno per la Repubblica Islamica; se, invece, Trump sarà rieletto e decidesse di proseguire nella linea sin qui adottata, ci potremmo aspettare una Repubblica Islamica più debole, esposta a due possibili reazioni, configgenti e alternative : radicalizzarsi, incrementando il peso dei militari e la violenza della repressione interna, oppure cedere di schianto, sotto l’effetto del continuo logoramento, dato dal sempre più emergente mal contento della popolazione.