La Bosnia ed Erzegovina è al capolinea?


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Jens Woelk (professore di diritto costituzionale comparato, Scuola di Studi Internazionali e Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Trento)
Più di 25 anni dopo la fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina il fallimento dello Stato e perfino un nuovo conflitto non sembrano più esclusi. Dopo il disimpegno della Comunità internazionale e la forte riduzione della sua missione militare, da circa 15 anni la promessa di un futuro nell’Unione Europea dovrebbe motivare i politici del paese a fare delle riforme. Tuttavia, tale futuro è lontano, nella migliore delle ipotesi, mentre i cambiamenti richiesti attraverso le riforme sono concreti, vicini e spesso svantaggiosi per gli stessi politici che li devono adottare perché intaccano le basi del loro potere.
Il risultato è uno stallo nel processo di trasformazione. La scena politica è dominata da un cartello fra i principali partiti etnici dei tre “popoli costitutivi” (bosgnacchi/musulmani, croati e serbi) che, dopo la fine della guerra, devono formare uno Stato multinazionale diviso in due “entità” di cui una a maggioranza serba, la “Republika srpska (RS)”, e l’altra, la “Federazione (FBH)”, a maggioranza bosgnacca e croata e sua volta suddivisa in 10 Cantoni. La logica di partenza di queste suddivisioni territoriali era di garantire la continuità dell’unità statale, ma allo stesso tempo di dare a tutti i gruppi il controllo su parti del territorio. L’equidistanza della Comunità internazionale rispetto ai tre gruppi è stata (ed è ancora) il dogma dominante, nonostante il passato (la guerra) e un forte interesse di rendere lo Stato funzionante per il futuro.
Tale interesse è stato perseguito anche attivamente: nei primi dieci anni, l’Alto Rappresentante della Comunità internazionale, investito di poteri sostitutivi straordinari in quanto garante del processo di attuazione dell’accordo di pace, ha imposto numerosi decreti contro l’ostruzionismo e per rafforzare il livello statale che originariamente, nella logica del “divide et impera”, le cui competenze erano state volutamente limitate al minimo. Successivamente sono stati trasferiti, su pressione internazionale, a livello statale, poteri fiscali ed impositivi (in particolare l’IVA) e giudiziari (incluse le istituzioni come il Consiglio della Magistratura e una Procura nonché una Corte statale) oltre all’unificazione dell’esercito. Queste e altre competenze ora statali sono considerate essenziali anche per la preparazione alla futura adesione all’UE.
Tuttavia, da anni la Commissione europea nelle sue relazioni registra la sostanziale assenza di progresso, nonostante le ingenti somme di denaro e di assistenza tecnica da parte dell’UE e di altri donatori con cui si cercano di sostenere il paese, le sue istituzioni e le riforme. Invece, con le loro posizioni differenti e le divisioni retoriche i partiti etno-nazionalisti hanno creato un clima di guerra fredda interna, con blocchi reciproci e veti incrociati che impediscono ogni progresso. Mentre mobilitano il proprio elettorato con la paura e l’odio nei confronti dell’altro, tali partiti formano allo stesso tempo un cartello efficace per la spartizione delle risorse creando un sistema clientelistico pervasivo che soffoca ogni opposizione.
Tale sistema di etnocrazia viene rafforzato, di tanto in tanto, da qualche crisi costruita ad arte per assorbire l’attenzione e l’energia di tutti gli attori, internazionali e locali, come ulteriore garanzia che non ci saranno riforme. A prima vista, l’attuale crisi, con l’annuncio della RS (giuridicamente non vincolante, fino ad un voto di conferma nell’altra camera) di voler unilateralmente ripristinare le competenze “originarie”, successivamente trasferite allo Stato attraverso un accordo e poi esercitate con una legge approvata dal Parlamento statale, sembra rientrare in tale schema.
Tuttavia, come ogni crisi precedente anche quella attuale pone la domanda, se essa non sia diversa e più pericolosa. Per dare una risposta occorre notare il cambiamento del contesto. I 15 anni di disimpegno internazionale e di consolidamento dell’etnocrazia hanno peggiorato di molto la situazione interna. Di recente, l’UE ha perso molta credibilità in tutta la regione a causa del blocco dell’inizio dei negoziati con l’Albania e la Macedonia settentrionale (prima il veto della Francia, ora della Bulgaria) che fa apparire la prospettiva di un allargamento sempre di più come una fata morgana.
Inoltre, la situazione geopolitica è cambiata: sotto la Presidenza Trump gli americani non solo non collaboravano più di tanto con l’UE, ma cercavano perfino di promuovere uno scambio di territorio fra Serbia e Kosovo per “risolvere” il problema della diversità delle popolazioni; un messaggio devastante per la convivenza fra gruppi diversi in altre aree. La Cina e la Turchia hanno aumentato la loro presenza e i loro interventi nei Balcani a favore di parti diverse. Ma è soprattutto la Russia che, sostenendo il regime autoritario in Serbia e gli indipendentisti serbi della Bosnia ed Erzegovina, persegue una strategia di divisione e conflitto per raggiungere il proprio interesse che consiste nella de-stabilizzazione della regione e nel bloccare l’espansione della NATO.
Così, in Bosnia da anni la Russia non collabora più nel consiglio per l’attuazione dell’accordo di pace e ha contrastato la successione nella carica dell’Alto Rappresentanze, anche nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Forti di tali divisioni della Comunità internazionale, i nazionalisti serbi sotto il loro leader Milorad Dodik, attualmente membro della Presidenza collettiva della Bosnia ed Erzegovina, sono tornati alle minacce di smantellamento dello Stato e di secessione oltre agli annunci di non riconoscere più l’autorità dell’Alto Rappresentante. La Comunità internazionale e l’Unione Europea non sembrano determinate a contrastare questo comportamento con delle misure forti (sanzioni mirate, rafforzamento della missione militare o simile), ma cercano di tranquillizzare tutti sperando che passi al più presto anche questa crisi. Tale atteggiamento, criticato da tanti come mero “appeasement”, desta il sospetto di un’assenza di strategia per il futuro del paese e della regione.
In concreto, secondo la mozione della RS il governo dell‘entità dovrebbe nei prossimi sei mesi elaborare nuove leggi per l‘esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario al fine di sostituire le attuali leggi statali; un chiaro passo verso la secessione se adottate. In una dichiarazione congiunta, le ambasciate di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia, così come la delegazione dell'Unione europea, hanno criticato la mozione parlamentare come un ulteriore passo verso l‘escalation. ”I membri della coalizione di governo nella RS (Republika Srpska) devono rendersi conto che la continuazione di questa via senz’uscita, mettendo in discussione l‘accordo di Dayton, danneggerà le prospettive economiche dell‘entità, minaccerà la stabilità del paese e dell‘intera regione, e metterà in pericolo il futuro della Bosnia nell‘UE", hanno detto gli ambasciatori.
Tuttavia, potrebbe proprio essere questo l’obiettivo di chi persegue questa strada, a prescindere dell’esistenza di un’uscita o meno. La risposta della Comunità internazionale e dell’UE deve diventare più forte e determinata per evitare degli scenari simili a quelli in Transnistria (Moldavia) o nell’Ucraina orientale. Oltre al futuro della Bosnia ed Erzegovina e della sua popolazione, si rischia la stabilità e il futuro nell’intera regione, con delle ripercussioni incalcolabili per il futuro della stessa Unione Europea come progetto di integrazione e di pace.