Il nodo 'responsabilità-solidarietà' e l’impasse decisionale nella UE


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
Il 25 marzo 2017 l’Unione Europea ha compiuto 60 anni. L’appuntamento ha rappresentato un’occasione importante per riflettere sui successi e sui problemi nel cammino d’integrazione. Una riflessione divenuta particolarmente urgente a seguito della decisione del Regno Unito di uscire dalla UE a 28 (la cosiddetta Brexit) e dell’ampia diffusione di movimenti anti-europei e/o anti-establishment in molti paesi dell’Unione. In occasione del loro incontro a Roma per le celebrazioni dell’anniversario, i capi di Stato e di governo dellUE a 27 hanno approvato una dichiarazione comune per il rilancio dell’Unione, basata sull’idea di cooperazioni rafforzate e integrazione differenziata (su cui tornerò in un prossimo contributo). Un passo importante, questo, che però non risolve da solo tutte le criticità emerse negli ultimi anni.
La creazione dell’euro, pur facilitando l’integrazione e la crescita, è avvenuta sulla base di un’architettura istituzionale inadatta a contenere le differenze strutturali tra i paesi. Questo si è reso evidente quando il timore che alcuni stati potessero divenire insolventi è bastato a dissolvere rapidamente l’integrazione economica raggiunta in vari decenni, frammentando i sistemi bancari e minando le finanze pubbliche nazionali. Di fronte a questi fenomeni, in attesa che i governi si accordassero sull’embrione di un fondo europeo di salvataggio, solo la Banca Centrale Europea ha dato risposte adeguate per rassicurare sulla tenuta dell’area euro e ripristinare un corretto funzionamento dei mercati. Il susseguirsi di emergenze economiche, sociali e di politica estera hanno spinto le autorità a focalizzarsi su soluzioni tampone, aggravando il ricorso ad azioni intergovernative (invece che comunitarie) che tendono a offuscare il (già controverso) processo decisionale europeo. Non solo le proposte della Commissione sono state timide, ma i governi hanno contribuito a indebolirle ulteriormente, addossando alla Commissione responsabilità in capo a loro stessi in quanto membri del Consiglio. Un comportamento opportunistico e miope che ha nutrito la diffidenza dei cittadini verso la UE.
Lo stallo decisionale non si è venuto a realizzare solo su dettagli squisitamente tecnici e su meri interessi di bottega. Ampia appare, per esempio, la differenza di vedute di governi e cittadini nei diversi paesi sul binomio responsabilità e solidarietà. Da un lato, i paesi “più solidi” chiedono ai paesi “meno solidi” di esercitare maggior responsabilità e di ridurre i rischi, attraverso l’adozione di riforme strutturali e politiche di bilancio moderate, prima di acconsentire ad azioni di “solidarietà”. Dall’altro lato, i paesi “meno solidi” sostengono di non poter affrontare i problemi strutturali senza che prima vi sia una condivisione dei rischi, attraverso garanzie comuni e un sistema di trasferimenti automatici (solidarietà).
Le divergenze di opinioni sulla giusta sequenza tra responsabilità e solidarietà hanno bloccato il Consiglio nella costituzione dell’Unione bancaria, i cui pilastri non sono ancora tutti operativi. Se ai primi di marzo 2017 il Presidente del Consiglio europeo dichiarava “Il Consiglio europeo ribadisce la necessità di completare l'Unione bancaria in termini di riduzione e condivisione dei rischi nel settore finanziario, nell'opportuna sequenza, come indicato nelle conclusioni del Consiglio del 17 giugno 2016”, mettendo quindi la riduzione prima della condivisione, solo pochi giorni dopo (il 12 marzo) il Governo italiano si esprimeva diversamente nel Documento di Economia e Finanza 2017, auspicando dei progressi simultanei su entrambi i fronti. A pagina VIII della Premessa, infatti, si legge: “Il Governo ritiene prioritario continuare a promuovere la propria strategia di riforma delle istituzioni europee. È necessaria una nuova governance che, accanto all’integrazione monetaria e finanziaria, dovrà ripartire dalla centralità della crescita economica, dell’occupazione e dell’inclusione sociale, introducendo strumenti di condivisione dei rischi tra i Paesi membri, accanto a quelli di riduzione dei rischi associati a ciascuno di essi. Una crescente condivisione dei rischi aumenta la capacità di aggiustamento e la flessibilità degli Stati membri agli choc, contribuendo a ridurre i rischi specifici degli stessi.”
Questa diversità di vedute sulla sequenza responsabilità-solidarietà riflette un’altra differenza culturale, quella tra i fautori di un processo di integrazione fondato sulle regole (Germania, Paesi Bassi, Finlandia) e i sostenitori di una “comunitarizzazione” delle politiche (Francia, Italia). Questa diversità di visione tra “centro” e “periferia” è del tutto legittima, ma è ormai caratterizzata in modo macchiettistico e associata a un dibattito sterile: da un lato, gli slogan semplicistici contro “la schiavitù dei numeri e dei vincoli tecnocratici ai bilanci” e, dall’altro, i luoghi comuni sulle spese “pazze” nella periferia (evocate recentemente anche dal presidente dell’eurogruppo Dijsselbloem).
La soluzione a questi problemi, e all’impasse che ne deriva, non sta solo nelle riforme istituzionali. Essa richiede il raggiungimento di un accordo politico fondato sul reciproco impegno a convergere, nonostante le profonde differenze nei punti di partenza, verso modelli sociali-economici-culturali-politici tra loro compatibili (se non addirittura simili). Un progresso che richiede la disponibilità a riflettere sulle determinanti profonde della mentalità collettiva e a modificare abitudini cristallizzate nel tempo. Una riflessione che questo periodo storico, carico di incertezza e risentimenti, rende particolarmente ardua e che difficilmente potrà iniziare prima della fine del ciclo elettorale in Francia, Germania e Italia.
Il nodo responsabilità-solidarietà si estende ad altri campi, come la libera circolazione delle persone. Amata da turisti, studenti e operatori economici, essa è divenuta più problematica a causa del suo impatto sui sistemi nazionali di welfare, attraverso l’erogazione di servizi sociali e assistenza economica ai cittadini provenienti da altri paesi della UE. Questo mostra come sia difficile approfondire l’integrazione economica e al contempo preservare modelli sociali diversi e separati, senza alcuna forma comune di condivisione e riduzione dei rischi. Da un lato la revisione dei modelli nazionali di welfare richiede un allineamento delle condizioni economiche di partenza attraverso maggiore condivisione di rischi e risorse e dall’altro la creazione di un sistema di trasferimenti (interpersonali e interstatali) necessita del contenimento dei rischi di azzardo morale, così da evitare forme di assistenzialismo osservate, per esempio, in Italia.
Mettere in discussione vari aspetti delle mentalità collettive nei diversi paesi è tutt’altro che banale e l’esperienza italiana con le diversità regionali interne ne è la più evidente testimonianza. Tuttavia la grandezza delle sfide che i cittadini europei si troveranno a fronteggiare sarebbe ancora maggiore se i paesi si muovessero in ordine sparso o in competizione tra loro. Non solo la rinuncia ad affrontare queste sfide in modo collaborativo diminuirebbe le chance di successo, ma un approccio meno coordinato aumenterebbe l'instabilità dentro il continente europeo. Anche chi non condivide l’auspicio “politico” di un’Europa più unita, può riconoscere che l’alternativa sovranista e protezionista non assicura la risoluzione dei problemi che animano il malessere. Ecco quindi perché appare necessario lavorare più a fondo per aumentare la qualità del processo di integrazione, affrontando le criticità culturali e istituzionali che hanno condotto allo stallo decisionale e a profonde forme di incomprensione