Il “New Deal” della globalizzazione e la sfida del rinnovo delle concessioni idroelettriche in Trentino


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Sondra Faccio, assegnista di ricerca presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento
Come nella nota fiaba di Andersen, la crisi sanitaria ha dato evidenza che il “re è nudo”. La crisi ha scoperchiato l’ipocrisia del benessere e ha portato alla consapevolezza dell’ovvio: le nostre vite sono interconnesse e la catena della sicurezza (economica, sanitaria, ambientale) è forte tanto quanto il più debole dei suoi anelli.
Ne consegue che la strategia per lo sviluppo post-pandemia non potrà essere fondata sugli stessi presupposti della precedente, anteponendo la ricchezza economica di pochi al sacrificio di molti, e a discapito dell’equilibrio e della sicurezza sanitaria, ambientale e sociale. Si tratta, in altre parole, di stabilire un “nuovo corso” per la crescita e la globalizzazione, che inverta il rapporto tra crescita economica da un lato, e ambiente e società, dall’altro; rendendo la prima funzionale alle seconde.
L’esigenza di un “New Deal” per l’economia e la globalizzazione è già stata evidenziata a livello internazionale dal rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa (OCSE) e dal manifesto “Multilateral Cooperation for Global Recovery” siglato, tra gli altri, dal Presidente della Commissione Europea, dal Presidente della Repubblica Francese, dal Cancelliere tedesco e dal Presidente del Senegal. Questi documenti hanno sancito a chiare lettere che la tutela dell’ambiente, della salute e degli standard sociali deve essere posta al centro dei nuovi modelli economici dei Paesi e del processo di globalizzazione.
Lungi dall’essere una questione teorica legata ai grandi consessi internazionali, la sostenibilità delle attività economiche riguarda anche il nostro territorio. Un esempio per tutti è il tema della gestione dei corsi d’acqua e il rinnovo delle concessioni per le grandi derivazioni idroelettriche che dal 2018 sta occupando le amministrazioni territoriali delle aree alpine, tra cui la Provincia Autonoma di Trento. Il D.L. 135/2018, infatti, ha disposto la “regionalizzazione” della proprietà delle opere idroelettriche e ha demandato alle regioni e alle provincie autonome la disciplina delle modalità e delle procedure di assegnazione delle nuove concessioni.
In questo contesto, la sostenibilità economica, ambientale e sociale è un tema chiave. Secondo uno studio di Legambiente è necessario un “ripensamento della gestione complessiva della risorsa (idrica),” che sia in grado di garantire l’equilibrio geologico, geomorfologico e idrologico dei territori, soprattutto nell’arco alpino. Le imprese del settore, d’altra parte, auspicano una valutazione comune degli aspetti tecnici, ambientali, sociali ed economici in sede di rinnovo delle concessioni.
A livello di amministrazione provinciale, le audizioni in seno al Consiglio della Provincia Autonoma dello scorso marzo (2020) sui disegni di legge relativi alla gestione dei corsi d’acqua hanno messo in rilievo l’esigenza che i contratti di concessione in corso di rinnovo “tutelino gli enti locali e l’ambiente.” La successiva legge n. 9 del 21 ottobre 2020 ha stabilito che nell’assegnazione delle concessioni il principio di economicità potrà essere subordinato a criteri ispirati a esigenze sociali, alla tutela della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e alla promozione dello sviluppo sostenibile. Tanto più che i nuovi concessionari potrebbero essere soggetti estranei al Trentino (per esempio, società straniere), con scarsa conoscenza delle istanze del territorio.
La legge n. 9 è attualmente oggetto di impugnazione per illegittimità costituzionale. Una delle censure mosse dal Governo riguarda l’obbligo previsto dalla legge che il concessionario si doti di “una sede operativa nel territorio provinciale [con] risorse umane e strumentali idonee.” A detta del Governo, quest’obbligo, seppur giustificabile, produrrebbe “una discriminazione di fatto, in danno degli operatori non stabiliti nel nostro Paese.”
A parere di chi scrive, questa disposizione sembra avere l’obiettivo di affidare le concessioni agli operatori (locali) in grado di garantire il rispetto del territorio e della sua comunità. Questo obiettivo, del tutto legittimo, può essere raggiunto anche attraverso una valutazione delle caratteristiche del concessionario e dell’investimento che questi intende realizzare. In altre parole, il processo di selezione dovrebbe portare all’individuazione di un soggetto (locale o straniero che sia) che abbia non solo la capacità di garantire la realizzazione economica della concessione, ma anche di assumersi e rispettare alcuni obblighi di sostenibilità.
A tal proposito, il contratto di concessione potrebbe prevedere specifiche clausole volte a garantire lo sviluppo sostenibile del territorio, formulate seguendo i modelli già utilizzati a livello internazionale nei contratti di investimento per il settore estrattivo. In genere, questo tipo di clausole rispecchiano le esigenze del luogo interessato dalle attività di concessione e cercano di limitare l’impatto ambientale e sociale dell’investimento. Esse possono, per esempio, impegnare il concessionario a un confronto periodico con le organizzazioni locali in relazione alle implicazioni ambientali e sociali della concessione, ovvero imporre al concessionario veri e propri obblighi di investimento a sostegno dell’ambiente e della comunità.
La definizione di questi strumenti giuridici richiede il coinvolgimento dei diversi operatori sul territorio - dall’impresa concessionaria, ai rappresentati della società civile e degli enti locali - in un’ottica di gestione condivisa e sostenibile delle risorse. La sfida lanciata dalla crisi ambientale e dall’emergenza economico-sanitaria è collettiva, la corsa non può lasciare indietro nessuno.
*Il contributo è stato scritto nel contesto del progetto “Il Trentino dopo l’emergenza. Come promuovere una nuova economia sostenibile attraverso l'attrazione e la regolazione degli investimenti diretti esteri”, finanziato da Fondazione Caritro e dalla Scuola di Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Trento.