
Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
Di Francesco Magno, assegnista di ricerca in storia contemporanea, Scuola di Studi Internazionali
“Mi rammarico tutt’ora di non essere riuscito a condurre in acque sicure la nave di cui avevo ricevuto il comando, a portare a compimento la riforma strutturale del paese e a circoscrivere la parestrojka entro i limiti dei miei progetti”.
Con queste parole Michail Gorbačëv suggellava la sua autobiografia intitolata Ogni cosa a suo tempo, edita in Italia da Marsilio nel 2013. Frasi che racchiudono il dramma non solo politico, ma soprattutto umano, di un uomo che non è riuscito a tenere ben salde le redini delle sue intenzioni. Oggi il mondo occidentale si spreca in elogi ed encomi di colui il quale, di fatto, contribuì forse più di ogni altro alla fine della Guerra Fredda e al crollo del Muro di Berlino, tracciandone tuttavia un’immagine eccessivamente lineare, a volte quasi astorica; un ritratto elegiaco enfatizzato anche dai recenti avvenimenti e dalle sconsiderate politiche del suo secondo successore. I discorsi mediatici hanno ruotato quasi ossessivamente attorno al suo estemporaneo ruolo di protagonista in uno spot di un noto franchising alimentare americano. Scelta comprensibile in un’epoca di facili emozioni social, che serve a rinforzare l’immagine positiva dell’ultimo leader sovietico rendendolo più “vicino” al pubblico occidentale, ma che ha totalmente oscurato la riflessione sulle profonde radici di Gorbačëv nella cultura e nell’identità sovietica.
L’ultimo leader non fu un dissidente salito agli onori della cronaca durante il crepuscolo della falce e del martello, come il cecoslovacco Václav Havel, né tantomeno fu un operaio postosi alla guida di un movimento popolare, come il polacco Lech Wałęsa. Gorbačëv fu uomo di partito e di apparato, non per necessità o convenienza, ma per profondo attaccamento alla patria sovietica e al progetto socialista. Un trasporto che emerge in maniera chiara ed insindacabile nella sua autobiografia. Qui Gorbačëv dedica interi capitoli alla descrizione orgogliosa della sua attività da primo segretario nel distretto di Stavropol, nel Caucaso, concentrandosi in maniera quanto mai dettagliata sui successi ottenuti in campo agricolo ed industriale. Il tono e il lessico da lui usato, con l’attenzione minuziosa agli sviluppi della tecnica, al miglioramento delle condizioni di lavoro di contadini e operai, e persino il tono affettuoso con cui vengono descritti molti degli incontri con Leonid Brežnev o Konstantin Černenko tradiscono l’immagine di un uomo che ha dedicato la sua intera vita alla patria, rispettandone storia e gerarchie.
Gorbačëv era radicato nell’universo sovietico, e mai ne avrebbe desiderato la dissoluzione. Per lui, la perestrojka e la glasnost non erano il fine ultimo, ma un mezzo, uno strumento per salvare quell’impalcatura a cui aveva dedicato la vita intera, convinto che soltanto una modernizzazione politica, sociale, economica e umana in senso lato avrebbe potuto garantirle una nuova vita. Qui probabilmente risiede la grande ambiguità della figura di Gorbačëv. La perestrojka rappresenta infatti la sua più importante eredità, ma nello stesso tempo è emblema del suo fallimento politico. Egli volle accompagnare alla modernizzazione economica anche quella politica e sociale, a differenza di quanto invece accadde in Cina, dove si optò per una “mera” trasformazione capitalista, lasciando però immutate le facoltà e le strutture coercitive del partito comunista. Secondo Gorbačëv, le riforme economiche dovevano necessariamente accompagnarsi ad un aumento delle libertà individuali in senso lato. Sotto questa luce va interpretata la concessione di libere elezioni, l’apertura verso l’estero e una maggiore disponibilità all’analisi dei punti oscuri del passato sovietico, soprattutto quello staliniano.
La storia, tuttavia, smentì i propositi della perestrojka: era impossibile attuare una trasformazione di tale portata in maniera democratica, senza che lo status di grande potenza ne venisse irrimediabilmente intaccato. La parabola di Gorbačëv può essere letta attraverso questa inconciliabilità tra la volontà di riforma e il desiderio di conservazione della grandezza sovietica. Ciò spiega anche alcune delle ambiguità della politica gorbačëviana, come il silenzio sugli effetti devastanti del disastro di Chernobyl, o l’iniziale durezza verso l’indipendentismo della Lituania, dove nel 1991 vennero uccise tredici persone a seguito dell’intervento dei militari sovietici intervenuti a sedare le pulsioni secessioniste.
Nelle ambiguità e nelle crepe del progetto gorbačëviano banchettarono i suoi oppositori e nello stesso tempo iniziarono a maturare quelle pulsioni revansciste e autoritarie che oggi hanno trovato in Ucraina la loro drammatica valvola di sfogo.
Tali contraddizioni, tuttavia, non devono intaccare il giudizio storico complessivo. Il grande merito di Gorbačëv fu aver cercato di far comprendere ai russi che, come disse lui stesso a conclusione delle sue memorie, “la storia concede sempre la possibilità di scelta e un’alternativa”.