I democratici stravincono le elezioni di midterm ma Trump non ne esce indebolito


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Umberto Tulli
Docente di “The United states in the World”, Scuola di Studi Internazionali
Con una manciata di seggi ancora da assegnare, la vittoria dei democratici alle elezioni di midterm sembra oramai un dato acquisito. Se all'indomani del voto non sembrava esserci stata alcuna blue wave (l’ondata blu: negli USA il blu è il colore del partito democratico), a circa due settimane dalla tornata elettorale, il successo democratico sembra ora incontrovertibile. I democratici hanno guadagnato 37 seggi alla Camera e sono arrivati a quota 232 (la maggioranza è 218), con circa 55/56 milioni di voti a loro favore.
Al Senato, come preventivato settimane prima dell’elezione, hanno perso tre seggi in Stati conservatori, limitando i danni e vincendo a sorpresa in Arizona. Hanno, infine, riconquistato 7 governatorati ai repubblicani (prima del voto il rapporto era di 33 governatori repubblicani e 16 democratici; ora di 26 a 23), un dato importante in vista della ridefinizione dei collegi elettorali tra due anni. Questo risultato però si presta a diverse interpretazioni e considerazioni.
La prima è il dato sulla partecipazione elettorale, che ha sfiorato il 50% - il dato più alto dalle elezioni del 1966. Su questo pesano diversi fattori: la crescente polarizzazione ideologica della società americana e la capacità di mobilitare un elettorato fidelizzato; una campagna elettorale senza sconti; l’idea che il voto fosse un referendum sull’operato di Trump. C’è poi un elemento ulteriore, spesso sottovalutato nei commenti di questi giorni, cioè il diffondersi di pratiche di voto in assenza, anticipato o per corrispondenza. Con dati non ancora definitivi e con un trend consolidato (circa il 7% nel 1992, poco sopra il 20% nel 2004 e nel 2006, il 40,2% nel 2014), il numero dei voti espressi in anticipo potrebbe aver superato il 50%.
Con questo sistema di voto, i cittadini esprimono le proprie preferenze con la campagna elettorale ancora in corso. Nonostante analisti, esperti e politici americani ritengano che le pratiche di voto anticipato favoriscano il voto per i democratici, le ultime settimane di campagna elettorale hanno registrato un dibattito politico incentrato su due temi che potrebbero aver spostato voti a favore del partito repubblicano: i dati sulla crescita economica degli Stati Uniti (una crescita che si posizione al di sopra di ogni più rosea aspettativa) e il problema dell’immigrazione, con la marcia di migliaia di cittadini dell’America centrale verso il confine statunitense.
Il voto anticipato, però, è stato introdotto anche come misura per contenere la vote suppression, cioè quei tentativi legali di escludere parte dell’elettorato (per lo più le minoranze) dall’esercitare il proprio diritto al voto. È quella della vote suppression una pratica che accompagna la storia degli Stati Uniti e che, alla vigilia di questo voto di midterm, ha visto esempi particolarmente spregiudicati, dalla Georgia al North Dakota (dove sono state introdotte delle “exact match laws” che penalizzano le minoranze) sino al Kansas. E, tuttavia, i dati di cui disponiamo oggi, ci dicono che la partecipazione delle minoranze è stata elevata.
È questa una seconda chiave di lettura del voto. I sondaggi e gli exit poll condotti nei giorni scorsi ci dicono che in questa tornata elettorale hanno votato quei segmenti della società americana che tendono a favorire il partito democratico: donne (59 a 39 a favore dei democratici), studenti ed under 30 (67 a 32 per i democratici), minoranze (su 100 afroamericani 90 a 9 hanno votato democratico; su 100 ispanici il rapporto è di 69 a 29). Ciò si riflette anche nella composizione delle delegazioni congressuali uscite dalle elezioni: i maschi bianchi compongono circa l’85% della delegazione repubblicana al Senato e il 90% di quella alla Camera, laddove i deputati maschi del partito democratico sono invece il 38%. Un dato, questo, che risalta maggiormente se si considera il successo delle donne in questa tornata elettorale: il numero di donne elette alla Camera dei rappresentanti è di 102, il più alto nella storia degli Stati Uniti. Di queste solo 13 provengono dalle file del partito repubblicano. La foto dei nuovi membri della Camera che circola sul web e che in pochi giorni è diventata virale cattura plasticamente questo contrasto.
La terza è il confronto con le precedenti elezioni di midterm. Con uno spostamento di 37 seggi alla Camera, la vittoria del partito democratico è la più ampia dal 1974 ad oggi. E Trump sembra aver riportato il peggior risultato dal 1950 ad oggi (con l’eccezione di Clinton nel 1994 e di Obama nel 2010). Alle elezioni di midterm del 2006, le cose andarono in maniera simile. I repubblicani persero 32 seggi e l’allora presidente Bush non esitò a definire il risultato del voto come “una catastrofe”. Eppure, il presidente Trump non esce dal voto così indebolito come l’ampiezza del successo democratico sembra suggerire, per almeno tre ragioni.
La prima riguarda i nuovi eletti del partito repubblicano che, rispetto ai loro predecessori, appaiono come fedelissimi del presidente. Il voto, in buona sostanza, ha completato e rafforzato un processo di trumpizzazione del partito repubblicano, indebolendo i suoi oppositori repubblicani che recentemente, in occasione del funerale del senatore McCain, sembravano aver rialzato la testa. La seconda è il perdurare di un voto repubblicano nelle aree agricole degli Stati Uniti, aree che nella particolare suddivisione dei seggi, tende ad essere sovra-rappresentata alla Camera. Infine, il dato che più colpisce è quello della crescente polarizzazione dell’elettorato che premia strategie aggressive, strategie che Trump sembra saper sfruttare al meglio.