Globalizzazione e flussi migratori. Ecco quanto pesano per "vincitori e vinti" sul piano elettorale


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
Nel corso degli ultimi due decenni, il quadro politico delle democrazie liberali occidentali ha registrato alcuni significativi mutamenti. La ribalta di nuovi attori politici e il crescente successo di soggetti tradizionalmente relegati alla marginalità, nonché un certo riposizionamento dei principali partiti politici tradizionali, sono stati accompagnati da un progressivo inasprimento dei toni del confronto e dalla messa in discussione di alcuni di quei capisaldi ideologici che avevano contribuito a plasmare, nei decenni precedenti, l’indirizzo politico di questo gruppo di paesi. Due elementi in particolare, la liberalizzazione del commercio internazionale e l’intensificarsi dei fenomeni migratori, hanno incontrato una crescente resistenza da parte di gruppi sociali eterogenei e, in alcuni casi, tradizionalmente antagonisti.
Ambo le circostanze, apertura commerciale e incremento dei flussi migratori internazionali, possono essere legittimamente inquadrate in quel fenomeno, più ampio, definito come globalizzazione e non sorprende che, secondo un’interpretazione piuttosto diffusa, le cause delle recenti evoluzioni dello scenario politico andrebbero ricercate proprio nella crescente integrazione dell’economia globale. Ma in che misura questa chiave di lettura, che si concentra sull’analisi dei ‘vincitori e vinti’ della globalizzazione all’interno di ciascun paese ed è supportata da una cornice teorica piuttosto solida, riesce a reggere a una verifica empirica?
Alcuni recenti avvenimenti politici, come l’esito del referendum sulla Brexit o le vicende legate alle ultime elezioni presidenziali americane, hanno reso tale domanda più incalzante. Sulla scorta di questo crescente interesse, alcuni economisti hanno recentemente cercato di trovare una risposta. Con l’aiuto dei propri ferri del mestiere, ossia le tecniche di analisi quantitativa, diversi gruppi di ricerca hanno studiato l’effetto della globalizzazione sulle dinamiche politiche interne dei principali paesi occidentali rintracciando, nonostante la specificità di ciascuno dei contesti, l’esistenza di alcuni meccanismi comuni.
Da questi lavori emerge, in particolare, come l’esposizione alla competizione commerciale da parte di paesi caratterizzati da un basso costo del lavoro abbia contribuito alla polarizzazione della politica statunitense, al sopravvento del ‘leave’ nel recente referendum che ha sancito la volontà della maggioranza dei cittadini inglesi di abbandonare il progetto europeo, nonché all’affermazione elettorale del Front National in Francia e di partiti della galassia dell’estrema destra in Germania. Analogamente, secondo altri studi, l’immigrazione avrebbe favorito il successo dell’FPÖ in Austria e delle coalizioni di centro-destra in Italia. A partire dalla scorsa primavera, anche alcuni studiosi della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento si sono inseriti in questo filone di ricerca.
La ricerca, resa possibile grazie anche al contributo della Provincia Autonoma di Trento, si propone di stabilire empiricamente se e in quale misura le dinamiche elettorali italiane degli ultimi due decenni possano essere spiegate da fattori economici collegati alla globalizzazione. Nello specifico, l’analisi va a studiare l’effetto di questi fattori sui voti ottenuti da diversi gruppi di partiti che si sono presentati, tra il 1994 e il 2013, alle elezioni politiche nazionali. Il raggruppamento dei partiti è stato effettuato con l’aiuto delle informazioni presenti nel Chapel Hill Expert Survey, uno studio condotto dall’Università della North Carolina con l’obiettivo di classificare i partiti politici europei sulla base del loro posizionamento ideologico.
Le determinanti economiche esaminate sono l’immigrazione e l’esposizione alla competizione commerciale da paesi con un basso costo della manodopera. Quest’ultima variabile è stata approssimata con l’esposizione alla concorrenza delle imprese manifatturiere cinesi. L’esempio cinese risulta particolarmente calzante ai fini dell’analisi in quanto nel periodo considerato – e soprattutto a partire dal 2001, anno in cui la Cina ha fatto il suo ingresso nel WTO - il nostro paese ha visto aumentare il deficit commerciale bilaterale di circa quindici volte. Al termine del periodo in analisi, le importazioni cinesi erano arrivate a rappresentare circa l’8% delle importazioni totali e il 20% di quelle provenienti da paesi non-Ocse. Se l’intensità della migrazione può essere facilmente misurata calcolando, a livello locale, il rapporto tra popolazione straniera e popolazione residente, la stima dell’esposizione locale alla competizione commerciale cinese risulta più laboriosa ma può essere ottenuta sfruttando le differenze nella vocazione produttiva dei territori. Infatti, poiché i diversi settori produttivi non sono distribuiti uniformemente sul territorio nazionale ma tendono a essere concentrati geograficamente, le aree tradizionalmente specializzate nei settori in cui la Cina possiede un vantaggio comparato risulteranno più esposte.
Ad esempio, un territorio storicamente specializzato nella produzione di capi di abbigliamento, settore per il quale l’Italia registrava nel 2016 un deficit bilaterale di circa 850 milioni di dollari, risulterà più esposto rispetto a un’area specializzata nella farmaceutica, settore in cui l’Italia registrava, nello stesso anno, un surplus bilaterale di circa 1,5 miliardi. I risultati ottenuti tendono a confermare quanto atteso, ossia che le aree caratterizzate da una maggiore intensità dei fenomeni in esame si rivelano, a parità di altre condizioni, più inclini a votare per quei partiti politici schierati su posizioni illiberali in tema di commercio estero e circolazione delle persone. In altri termini, i risultati suggeriscono che la competizione commerciale dalla Cina e i flussi migratori tendano a favorire alle urne quei partiti che si oppongono programmaticamente alla globalizzazione.
Nello specifico, sia nelle zone fortemente esposte alla competizione commerciale cinese sia in quelle caratterizzate da una maggiore intensità dei flussi migratori, i partiti di destra e di destra radicale (Lega Nord inclusa) risultano premiati in termini elettorali. Al contrario, i partiti della sinistra radicale (SEL inclusa), pur collocando la lotta alla globalizzazione e al ‘liberismo’ in cima alla loro agenda politica, non sembrano essere in grado di ottenere il supporto di coloro i quali dovrebbero rappresentare un bacino elettorale di riferimento, ossia i lavoratori dei settori colpiti dalla concorrenza internazionale. Questo gruppo di partiti paga invece la propria linea tendenzialmente ‘aperta’ verso la migrazione internazionale, in quanto l’intensità del fenomeno migratorio incide negativamente sulle loro performances elettorali. Intensità della migrazione e della competizione commerciale incidono negativamente anche sui voti destinati ai due principali partiti della Seconda Repubblica, ossia Forza Italia e Partito Democratico (considerati nelle loro varie evoluzioni, ossia PDS-DS-PD e FI-PDL-FI).
Andando oltre la classificazione sinistra-destra e raggruppando i partiti sulla base del loro posizionamento sulla dimensione GAL-TAN (verdi/alternativi/liberali–tradizionalisti/autoritari/nazionalisti), emerge in maniera piuttosto chiara come l’aumento della migrazione favorisca i soggetti che si posizionano nell’area politica TAN. Al contrario, e come lecito attendersi, l’esposizione alla concorrenza cinese non sembra produrre effetti su questa dimensione. Tuttavia, essa sembra produrre un effetto sul successo dei partiti euroscettici, forse per via di un’associazione, da parte dell’elettorato, tra Unione Europea e politiche economiche liberoscambiste.
Che lezione si può trarre da questa analisi? Essa conferma l’importanza di alcune determinanti economiche dei risultati elettorali, ottenendo evidenze coerenti con la teoria dei ‘vincitori e vinti’ della globalizzazione. In generale, questi risultati sembrano confermare che i fenomeni di cambiamento economico e sociale legati all’apertura con l’estero si associano a una richiesta politica di maggior protezione. Essi non implicano, tuttavia, che le preoccupazioni alla base di queste richieste siano interamente fondate, né che la chiusura e l'isolamento siano le risposte corrette ai problemi percepiti. Innanzitutto, i benefici dei due fenomeni considerati sono presenti e diffusi, anche se difficili da percepire.
Inoltre, gli effetti negativi derivanti da una eccessiva chiusura non sono facilmente identificabili perché controfattuali. I cittadini del Regno Unito, in un unico quanto doloroso esperimento sociale, stanno assistendo ora al dispiegarsi delle conseguenze negative, per molti impreviste, delle loro scelte. I risultati dello studio suggeriscono tuttavia che le forze politiche dell'intero arco parlamentare debbano avere consapevolezza di queste istanze della società e della loro distribuzione territoriale nel declinare delle risposte adeguate che siano in linea con le proprie visioni del mondo.
Mauro Caselli, Andrea Fracasso e Silvio Traverso, membri della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento