Cosa resta degli investimenti esteri dopo l'emergenza Covid? Ripartire dal territorio per una globalizzazione sostenibile


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Sondra Faccio (Scuola di Studi Internazionali, Università degli Studi di Trento)
Si prospettano tempi bui per la globalizzazione e per il suo veicolo d’eccellenza, gli investimenti diretti esteri. Secondo un recente rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), la pandemia Covid-19 e le misure adottate dagli Stati per arginare la sua diffusione determineranno una flessione dei flussi di investimento diretto estero del 30% nel 2020, per ritornare a livelli pre-crisi solo nel 2021 (secondo il più ottimistico degli scenari).
Ciò significa meno imprese multinazionali interessate a investire sul territorio italiano e meno imprese italiane disposte a “internazionalizzare”. Insomma, una drastica battuta d’arresto al tanto discusso processo di globalizzazione. Ma il rallentamento degli investimenti diretti esteri è una buona o una cattiva notizia? Gli episodi che hanno coinvolto alcune imprese multinazionali in Italia - tra tutti AncelorMittal (Taranto) e Miteni (Vicenza) - con danni all’ambiente e alla salute dei cittadini, potrebbero indurre alcuni a rispondere che si tratta di una buona notizia, senza riserve.
Se da un lato, infatti, le imprese multinazionali (principali vettori di investimento diretto estero) sono percepite come fonte di posti di lavoro e ricchezza, anche attraverso l’indotto che possono generare; dall’altro, esse spesso tendono a rimanere ai margini del territorio ove si insediano, senza una reale integrazione con la comunità locale che le percepisce come entità estranee o addirittura come minacce all’equilibrio e alla qualità di vita dei cittadini. D’altra parte, gli investimenti diretti esteri rimangono una fonte importante di risorse, tanto più preziose in questo contesto di emergenza sanitaria, che mai come prima ha messo in luce la debolezza del sistema pubblico e la necessità di un’adeguata cooperazione tra i settori pubblico e privato e la società civile.
Con un’economia in affanno e un debito pubblico in drammatica ascesa, gli Stati, e quello italiano in primis, guarderanno alle imprese (nazionali e straniere) come opportunità per risollevare la crescita e creare quella ricchezza necessaria a far ripartire l’economia. Come dimostrato proprio nel corso della crisi, inoltre, le imprese posseggono conoscenze, tecnologie e capacità organizzative importanti, che nei momenti di emergenza possono sostenere la comunità e il settore pubblico.
Varrebbe, quindi, forse la pena di conciliare questi due estremi, per non rischiare - come si direbbe - di “buttare il bambino con l’acqua sporca”? A tal proposito, è già stato osservato in questo Blog che per ripartire dopo l’emergenza è richiesto “uno sforzo per ripensare il funzionamento dell’economia e della società in chiave sostenibile”. Ecco dunque che anche con riferimento agli investimenti diretti esteri la riposta dovrebbe essere quella della sostenibilità. Gli Stati e gli enti territoriali, in altre parole, sono chiamati ad accogliere quei progetti di investimento diretto estero che siano in grado nel contempo di contribuire alla creazione di ricchezza economica e di garantire - e se possibile migliorare - la qualità della vita della comunità coinvolta. Gli Stati e gli enti, inoltre, dovranno monitorare l’evoluzione dei progetti e la loro sostenibilità nel tempo. Ma come fare? A tal proposito, l’esperienza sviluppata nella gestione degli investimenti diretti esteri nel settore estrattivo potrebbe essere fonte di ispirazione.
In questo contesto, gli Stati negoziano specifiche clausole, che vengono poi inserite nel contratto di investimento che disciplina il rapporto tra lo Stato e l’investitore straniero, con l’obiettivo di garantire lo sviluppo sostenibile del progetto di investimento attraverso l’integrazione dell’impresa nel territorio e la condivisione dei benefici con la comunità locale. Si tratta, per esempio, di clausole che prevedono l’obbligo dell’investitore di reinvestire parte dei profitti derivanti dall’attività d’impresa in infrastrutture sanitarie e/o in attività di alta formazione a beneficio dei membri delle comunità sede dell’investimento. Queste clausole variano da contratto a contratto, in relazione: alle capacità di ciascuna impresa, alle caratteristiche della partnership pubblica-privata e alle esigenze di sviluppo sostenibile del territorio coinvolto, e prevedono sistemi di controllo (e anche di esecuzione forzata) che mirano a garantire l’adempimento dell’impresa. Esistono poi gli accordi tra investitore e comunità locale, negoziati direttamente dall’impresa straniera e dai rappresentanti della comunità locale, che hanno l’obiettivo di implementare specifici progetti di sviluppo, soprattutto nei settori della sanità, della tutela dell’ambiente e dell’istruzione.
Un interrogativo cruciale per lo sviluppo economico dopo l’emergenza sanitaria è se questi strumenti possano essere efficacemente applicati anche nel contesto italiano (e trentino) e con quali adattamenti. Certo è che per conciliare crescita del PIL e sostenibilità, soprattutto in queste straordinarie circostanze di emergenza sanitaria, è necessario un ripensamento della strategia di sviluppo del Paese e un nuovo approccio al processo di globalizzazione, inclusi gli investimenti diretti esteri. Per un territorio a vocazione turistica come il Trentino sarà ancora più determinante raccogliere la sfida ed elaborare strumenti economici e giuridici in grado conciliare l’attrazione di investimenti esteri con un modello di sviluppo rispettoso dell’ambiente e delle comunità locali.