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Cambiamento e restaurazione? Genesi e prospettive del governo (e dell’alleanza) M5S-PD

Il docente di Scienze politiche della Scuola di studi internazionali dell'Università di Trento Emanuele Massetti analizza le cause della crisi di governo d'agosto e le genesi e le sfide del governo Conte bis. La missione per non subire un contraccolpo elettorale? Generare consenso, rivendendo il paradigma economico e sviluppando una politica cauta sul'immigrazione
DAL BLOG
Di Orizzonti Internazionali - 18 settembre 2019

Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento

di Emanuele Massetti, docente di Scienza Politica alla Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento

 

Ora che la polvere inizia a posarsi sulla crisi di governo, diventa possibile offrire un’analisi sufficientemente ragionata sulle cause, modalità e potenziali sviluppi di ciò che è accaduto in questa caotica estate.

 

Iniziamo dalle cause della crisi. Coloro che hanno accusato Salvini di voler anteporre l’interesse di partito a quello dello stato, hanno indicato l’impazienza del leader leghista di capitalizzare il consenso indicato dai sondaggi - ed in parte sancito dalle elezioni europee - come movente principale. Tale lettura risultava rinforzata da voci di corridoio secondo le quali, prima di staccare la spina, Salvini avrebbe ricevuto rassicurazioni da Zingaretti (o da persone a lui vicine) su un esito elettorale della crisi. Nonostante quest’interpretazione potrebbe cogliere una parte della verità, ed in particolare la spavalderia con cui Salvini ha gestito questo delicatissimo passaggio, essa si scontra però con la tempistica della crisi stessa. La volontà di tradurre i sondaggi in risultati delle elezioni politiche avrebbe infatti indotto all’apertura della crisi molto prima - in giugno o, al massimo, inizio luglio – non certo in agosto. D’altra parte, queste congetture erano giustificate dal fatto che Salvini stesso, almeno inizialmente, non era stato molto chiaro o convincente sui motivi che l’avevano spinto a prendere questa decisione e sui tempi della decisione stessa. Il refrain del "governo dei no" stonava evidentemente con la fresca approvazione del decreto sicurezza bis e con il voto parlamentare (e le dichiarazioni di Conte) che aprivano alla prosecuzione del progetto sul Treno ad Alta Velocità (TAV). Ma, a maggior ragione, se la scelta di forzare elezioni politiche anticipate era già presa all’indomani del voto europeo, perché attendere di incassare approvazioni o aperture sulle proprie politiche, con il rischio di rendere la decisione di aprire la crisi meno giustificabile e difendibile anche agli occhi del proprio elettorato?

 

Chiaramente, il casus belli va ricercato tra gli avvenimenti della seconda metà di luglio o inizio agosto. Tralasciando la spiritosa ma implausibile spiegazione paventata dal parlamentare del M5S D’Uva ("un mojito di troppo") e quella, forse più plausibile ma sicuramente inesaustiva di Di Battista ("un’ubriacatura di potere"), dovrebbe apparire evidente che la rottura della fiducia tra le due forze politiche del governo Conte I si sia consumata sul rapporto con l’Unione europea e, a cascata, sull’impostazione della legge di bilancio. L’adozione di strategie totalmente contrapposte sulle nomine apicali della Ue ha segnato un’incrinatura difficilmente sanabile. Quando si è poi manifestata, da parte del M5S, la difesa dell’approccio del Presidente del Consiglio Conte e del Ministro dell’Economia Tria sulla legge di bilancio - che veniva impostata all’insegna di un rigoroso rispetto dei parametri Ue - Salvini ha capito che avrebbe dovuto rinunciare al progetto di una generale riforma fiscale per la seconda volta (dopo la rinuncia sulla legge di bilancio del 2018).

 

La causa scatenante della crisi non va quindi ricercata nel numero dei "no" che si registravano dentro la vecchia maggioranza ma nell’importanza cruciale di alcuni di questi "no": in particolare quello alla volontà politica della Lega di schierarsi contro l’establishment Ue e di ottenere il via libera alla "flat tax", con il conseguente stimolo alla domanda aggregata che la Lega si attendava da quella riforma.

 

Come sappiamo, la crisi si è poi risolta nella creazione di un governo M5S-PD-LeU in poco più di due settimane. Occorre sottolineare, che le ragioni e le modalità di questa soluzione appaiono informate da un approccio alquanto spregiudicato. Infatti, coloro che hanno caldeggiato questo esito hanno avuto bisogno di giustificarlo invocando una missione straordinaria ed imprescindibile: salvare la democrazia italiana da Salvini - ovvero dalla presunta volontà degli elettori di consegnare una maggioranza parlamentare a Salvini, il quale l’avrebbe usata a scopi sostanzialmente eversivi. A scanso di equivoci, la scelta del M5S e del PD di dar vita al Conte II è pienamente legittima da un punto di vista costituzionale: sicuramente non meno legittima di quanto lo sia stata quella del M5S e della Lega di dar vita al Conte I. Non solo, una volta costatata la volontà politica di andare in quella direzione, i partiti della nuova maggioranza avrebbero dovuto avere più tempo di quello che gli è stato concesso per arrivare ad un accordo di governo il più dettagliato e stringente possibile. Questo avrebbe sicuramente dato al nuovo governo la possibilità di nascere su basi più solide.

 

Detto questo, un’alleanza di governo tra il partito uscito maggiormente sconfitto dalle elezioni politiche (PD) e quello uscito maggiormente sconfitto dalle recenti elezioni europee (M5S) non sembra, a prima vista, il miglior viatico per riconciliare gli italiani con le istituzioni democratiche e repubblicane. Anche senza drammatizzare troppo il trattamento fortemente delegittimante che M5S e PD si sono vicendevolmente riservati sino a ieri, non può sfuggire ai cittadini la base strumentale dell’operazione Conte II, se non altro perché questa è stata fortemente voluta da chi aveva sempre osteggiato intese tra i due partiti: Grillo e Renzi. Infine, il Conte II nasce con l’esplicito obiettivo di riallineare politicamente l’Italia all’Ue, un proposito non proprio popolare tra i cittadini a giudicare dai più recenti rilevamenti della Commissione Europea: il 55% degli italiani non ha fiducia nella Ue contro il 37% che ha fiducia (Standard Eurobarometer 91: First Results. https://ec.europa.eu/commfrontoffice/publicopinion/index.cfm/survey/getsurveydetail/instruments/standard/surveyky/2253).

 

Queste considerazioni servono a delineare una minima base fattuale sulla quale si possono basare delle ipotesi sul futuro: questo nuovo governo ha un bisogno disperato di generare consenso. L’ultimo sondaggio disponibile (condotto da Ipsos per ITV Movie il 09/09/2019: http://www.sondaggipoliticoelettorali.it/Home.aspx?sessionended=1) indica che il nuovo governo piace solo al 35% degli intervistati (non piace al 54%), e che riscuote meno favore del governo precedente (32% contro 36%). In teoria, il Conte II dovrebbe quindi adottare subito misure popolari nelle aree ritenute più importanti dai cittadini, a partire dalla crescita economica. Qui occorrerebbe non un semplice cambio di passo ma un vero cambio di paradigma rispetto alle troppo timide politiche del Conte I e, soprattutto, rispetto ai deludenti risultati dei governi Renzi e Gentiloni (intorno a -1 punti crescita di PIL rispetto all’eurozona); per non parlare dei disastrosi risultati dei governi Monti e Letta (ben oltre -1.5 punti crescita rispetto all’eurozona). Se, invece, il governo si accontentasse di continuare con una crescita dell’economia sotto il livello medio dell’area euro (che è già basso di per sé nel contesto dell’economia mondiale) allora a poco varrebbero tutti gli altri interventi, anche meritevoli, come quello annunciato sugli asili nido.

 

Per quanto riguarda poi l’immigrazione, occorrerebbe distinguere tra la politica degli ingressi via mare, da un lato, e le politiche dell’accoglienza e dell’integrazione dall’altro. Sulle seconde, andrebbero smontate gran parte delle controriforme Salviniane, a patto che si vigili sull’uso appropriato delle risorse impiegate e, soprattutto, che l’aumento di queste risorse vada di pari passo con una forte crescita economica ed una speculare decrescita del malcontento sociale. Sugli sbarchi invece, sarebbe poco saggio fare affrettati passi indietro prima che un nuovo soddisfacente accordo (in sostituzione di quelli di Dublino) entri pienamente in vigore.

 

Se rafforzate dall’adozione di politiche popolari, le nuove forze di governo avranno più possibilità di imporsi o, almeno, di evitare imbarazzanti filotti di sconfitte (tipo quello Abruzzo-Sardegna- Basilicata-Piemonte del febbraio-maggio 2019) nelle prossime elezioni regionali. Queste, tra l’altro, si terranno in regioni tradizionalmente rosse (Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna) o tradizionalmente contendibili (Calabria), paventando quindi, da un lato, maggiori possibilità di vittoria e, dall’altro, lo spettro (soprattutto per il PD) di sconfitte umilianti. Come detto sopra, la strategia prioritaria delle nuove forze di maggioranza dovrebbe essere quella di riguadagnare consenso e fiducia tra i cittadini tramite un’azione di governo rispondente alle loro preferenze. Se poi in alcune regioni si dovesse constatare l’esistenza di condizioni che permettano un apparentamento elettorale, questo non guasterebbe certo le probabilità di vittoria. Sarebbe, tuttavia, nefasta l’idea che basti arrivare ad un’alleanza elettorale per le regionali, indipendentemente dall’adozione di una strategia governativa popolare. Questa strada porterebbe solo ad unire strumentalmente due partiti deboli ed impauriti. I possibili esiti sarebbero o vittorie illusorie e di corto respiro (magari con risultati di misura e con livelli di affluenza alle urne molto bassi) o, peggio ancora, cocenti sconfitte che destabilizzerebbero immediatamente il governo dal basso.

 

Tutto sommato, il compito delle nuove forze di governo non è poi tanto complesso né diverso da quello che attende qualsiasi governo eletto: basterebbe tornare nell’ordine delle idee che, in democrazia, non si può governare indipendentemente da (o contro) le preferenze e gli interessi dei cittadini.

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