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Brexit, ecco perché nessuno vorrebbe essere al posto di Theresa May

Il Regno Unito non riesce a sciogliere il nodo che riguarda i suoi rapporti con l'Unione europea tirato da una parte da quelli che sostengono una ‘hard’ Brexit, dall'altra da quelli per un'uscita ‘soft’ e dagli stessi europeisti. Tutto quel che c'è da sapere sull'argomento e sul perché anche l'Inghilterra sta ripensando alla sua vocazione referendaria
DAL BLOG
Di Orizzonti Internazionali - 17 gennaio 2019

Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento

di Louisa Parks, Professore Associato di Sociologia Politica Scuola di Studi Internazionali e Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università di Trento

 

Martedì 15 gennaio il Parlamento britannico ha bocciato l’ormai famoso accordo per la Brexit che ha portato a una storica sconfitta dell’attuale governo conservatore. Il voto non ha contribuito certo a chiarire quali possano essere i termini per la Brexit. Questo articolo riassume la complessa relazione tra Regno Unito e Unione Europea al fine di contestualizzare il referendum del 2016 e il voto di martedì. Inoltre, spiega il perché l’accordo è così impopolare tra i parlamentari britannici e riflette su quale possa essere il prossimo capitolo della saga Brexit.

 

Per cogliere quali siano le posizioni politiche sulla Brexit oggi, è necessario guardare alla passata relazione tra i due maggiori partiti politici britannici: i Conservatori del centro-destra e i Laburisti del centro-sinistra. La difficoltà di questi partiti nel perseguire una linea politica nei confronti dell’UE è dovuta alla loro storia, visto che risultano da grandi coalizioni e/o si compongono di numerose correnti al proprio interno. Pertanto, le divergenze rispetto all’appartenenza all’UE possono essere significative all’interno del Partito Conservatore e di quello Laburista – che, in realtà, sono i due unici contendenti al potere in una nazione storicamente basata su un sistema bipartitico, nonostante la recente ascesa di altri partiti politici.

 

In origine fu il Governo conservatore a negoziare l’adesione del Regno Unito all’allora Comunità Europea nel 1973. Persino allora una minoranza significativa del Partito Conservatore si dichiarava scettica verso il progetto europeo, che sarebbe potuto evolvere in un qualcosa che somigliasse ad uno stato federale se coloro che caldeggiavano l’integrazione politica avessero avuto la meglio. Tuttavia, nei primi anni Settanta, la maggioranza dei conservatori riteneva che i vantaggi del mercato unico avessero maggior peso di tale eventualità. Inoltre, si riteneva che il modo migliore per il Regno Unito di godere dei benefici del mercato unico e, allo stesso tempo, controllare il progetto d’integrazione politica fosse diventare uno Stato Membro. Questa strategia fu poi applicata con zelo da Margaret Thatcher e fu particolarmente evidente nella sua relazione conflittuale con Jacques Delors e nella rinegoziazione del contributo del Regno Unito al bilancio comunitario.

 

La relazione tra Regno Unito e Unione Europea è sempre stata complessa e caratterizzata da una contrapposizione all’interno del Partito Conservatore tra coloro che vedevano l’appartenenza all’UE come un limite inaccettabile all’indipendenza del Regno Unito e coloro che adottavano un approccio pragmatico, ritenendo che i benefici economici di tale appartenenza superassero gli svantaggi politici. È stata questa contrapposizione, sempre più profonda, ad aver portato al referendum del 2016. Sotto la guida di David Cameron, ma già qualche anno prima, la spaccatura fra le due anime del Partito Conservatore si è accentuata causando problemi sempre maggiori di disciplina e unità interna. L’ascesa di Ukip (Partito per l’indipendenza del Regno Unito), guidato da Nigel Farage, ha aggravato questa crisi – il Partito Conservatore ha perso consensi non solo tra i propri parlamentari britannici ed europei, ma anche nella propria base elettorale.

 

Per riguadagnare terreno di fronte al rischio di un governo di coalizione con i Liberal Democratici centristi, Cameron ha cercato di limitare i membri Euroscettici del proprio partito promettendo un referendum sull’appartenenza all’UE durante la campagna elettorale per le elezioni del 2015. Se il suo partito avesse vinto le elezioni subito, lui avrebbe indetto il referendum. Così, molti opinionisti politici ritengono che il referendum sia stato solo un mezzo per ristabilire gli equilibri del Partito Conservatore e niente di più. Tuttavia, questa battaglia interna non si è affatto placata, ma infiamma e il partito è nel caos dovuto all’intera questione Brexit, incluso il voto ultimo di martedì.

 

L’idea del referendum come tentativo di placare la politica interna acquisisce credibilità se si guarda alla situazione del Partito Laburista, che in maniera simile è caratterizzato da lotte interne sulla questione europea. Quando il Regno Unito stava negoziando l’adesione, i Laburisti erano divisi tra quelli che, più vicini ai sindacati, vedevano nell’Europa una minaccia per i lavoratori visto che il mercato unico avrebbe potuto limitare i loro diritti, e quelli che vedevano nell’Europa la possibilità di espandere l’economia e raggiungere una solidarietà politica che andasse al di là delle frontiere nazionali.

 

In occasione delle elezioni che seguirono l’ingresso del Regno Unito nel mercato unico, i Laburisti sostennero – senza sorpresa – l’indizione di un referendum e i membri del partito erano liberi di scegliere se promuovere le ragioni del Sì o del No. Tuttavia, la rinegoziazione dell’accordo di adesione guidata dal Primo Ministro laburista Wilson – che supportava le ragioni pro-Europa – convinse la maggioranza dei votanti, se non altro per la creazione di un fondo di sviluppo regionale. Wilson vinse il referendum – perché ‘il popolo si era espresso’ (slogan che riecheggia di continuo nel dibattito sulla Brexit) – e, così facendo, pose fine alle battaglie interne nel Partito Laburista all’epoca. Nel 2016, Cameron ha cercato di fare lo stesso e si è persino recato a Bruxelles per rinegoziare l’accordo tra UE e Regno Unito, pur portando a casa scarsi risultati in termini di concessioni concrete se paragonati a quanto ottenuto da Wilson.

 

Cameron ha perso la sua battaglia – anche se con un margine risicato dell’1,9% - e si è dimesso all’alba del risultato referendario. Theresa May ha raccolto la leadership del Partito Conservatore ed è tornata alle urne nel 2017, al fine di assicurarsi un mandato forte per negoziare la Brexit e calmare le acque all’interno del proprio partito, attualmente diviso tra la cosiddetta ‘hard’ e ‘soft’ Brexit. Mentre la prima comporterebbe un’uscita netta della Gran Bretagna dagli accordi e trattati europei, inclusa l’uscita dal mercato unico, la seconda determinerebbe la sua uscita dalle istituzioni europee, ma le permetterebbe di rimanere in qualche modo nel mercato unico. La strategia elettorale della May non ha portato i risultati sperati: il Partito Conservatore ha perso terreno nel Parlamento, obbligando la May a concludere un accordo con il Partito Unionista Democratico dell’Irlanda del Nord per puntellare esternamente la propria maggioranza.

 

Ormai privo di un mandato forte, il governo May è rimasto in balia dei continui battibecchi pubblici tra i suoi membri, inclusi i nominati nel Consiglio dei Ministri, su quale forma dovesse prendere la Brexit. Una lunga serie di ministri per la Brexit si è susseguita in poco tempo e un numero sempre maggiore di alte cariche del Governo hanno reso le proprie dimissioni a causa di tale questione. D’altro canto, l’opposizione del Partito Laburista alla Brexit è stata poco incisiva, sia in linea di principio che in termini concreti, relativamente all’approccio alla negoziazione del Governo May, riaprendo ancora una volta le proprie fratture interne sull’Europa. Jeremy Corbyn, attuale leader del Partito Laburista, è un membro della vecchia guardia e vede l’Europa come una minaccia ai diritti dei lavoratori; invece, molti parlamentari laburisti, e più in generale molti dei suoi membri (soprattutto tra le nuove generazioni) sono pro-UE e spingono affinché si assuma una posizione netta contro la Brexit.

 

Il risultato di tutto ciò crea grande confusione sulla questione Brexit, dato che i politici britannici di entrambi gli schieramenti nella Camera dei Comuni litigano per il potere politico, piuttosto che concentrarsi sul come e in quali circostanze la Brexit debba verificarsi, che sono le questioni cruciali in questo momento. Quindi, la lotta politica interna ha la precedenza a spese di una programmazione più attenta e considerazioni più caute su come procedere, scontati gli effetti della Brexit non solo sui cittadini britannici, ma anche sui tanti cittadini europei che vivono e lavorano nel Regno Unito.

 

Questo è lo scenario del voto di martedì, un ‘voto significativo’ sul quale il Parlamento ha insistito tanto, perdendo già troppo tempo. L’accordo sul quale si è votato è stato bocciato da una maggioranza di 230 voti. In breve, l’accordo copre un periodo di transizione di due anni successivi all’uscita del Regno Unito dall’Unione, durante i quali i termini concreti della relazione futura tra le due parti devono essere decisi. Il nodo cruciale dell’accordo resta il cosiddetto ‘backstop’, un meccanismo volto a prevenire il ritorno ad un confine ‘rigido’ tra la Repubblica dell’Irlanda e l’Irlanda del Nord – che è parte del Regno Unito – qualora non si pervenisse ad un accordo prima della fine del periodo di transizione. Infatti, l’entrata in vigore di un confine rigido contravverrebbe ai termini degli Accordi di Pace del Venerdì Santo e porterebbe a un totale disastro.

 

Tuttavia, il backstop richiederebbe al Regno Unito di rimanere nell’unione doganale europea con l’obbligo di continuare a seguire le regole dell’UE in vari settori. Questo scenario, secondo coloro che sono a favore della Brexit, è equiparabile a non uscire affatto dall’Unione. Il vero punto critico è che il backstop, in base a quanto previsto dall’accordo ormai bocciato, può terminare solo con il permesso dell’UE. Secondo quanti sostengono la Brexit, Bruxelles continuerebbe così ad esercitare un potere di controllo sul Regno Unito. Se la May sia mai stata nelle condizioni di raggiungere un accordo ‘migliore’ è difficile da dire – sicuramente i conflitti interni nel Regno Unito hanno limitato il suo potere negoziale. Allo stesso tempo, l’UE non ha alcun interesse a fare troppe concessioni al Regno Unito; piuttosto, può usare la Brexit come esempio per chiarire che l’uscita dall’UE non è una scelta sensata.

 

E questo ci porta al caos attuale. Subito dopo il voto, il leader laburista Jeremy Corbyn ha presentato una mozione di sfiducia, discussa ieri mercoledì 16 gennaio. Se lui avesse vinto, si sarebbe potuto indire nuove elezioni sia nel caso che alla May non fosse confermata la fiducia del Parlamento o qualora lei non riuscisse a formare un nuovo governo nei successivi ventiquattro giorni. Tuttavia, vincere con una mozione di sfiducia è sempre un azzardo – nonostante molti conservatori abbiano votato contro l’accordo della May, votare la sfiducia al proprio governo è tutta un’altra questione. Infatti, non appena la mozione è stata presentata, tanto la corrente più euroscettica del Partito Conservatore quanto i Democratici Unionisti hanno confermato il proprio supporto alla May.

 

A questo punto, la caduta del governo e un ritorno alle urne in tempi brevi sembra improbabile – anche se la politica sulla Brexit ha dinamiche e risvolti misteriosi. Allora, cosa potrebbe accadere? Molto probabilmente i Conservatori non rimuoveranno la May dall’incarico. Tra l’altro, un altro voto di sfiducia, come quello di un mese fa, in un anno è contro le regole del partito ed è opinione generale che la carica di Primo Ministro, a questo punto, non sia altro che un calice avvelenato. Nessuno sembra disposto a sobbarcarsi la responsabilità di negoziare la Brexit, né di gestire gli inevitabili attacchi politici che ne seguiranno. Sembra che i Conservatori lasceranno alla May il lavoro sporco, per poi incolparla delle conseguenze negative una volta che si sia ritirata dalla politica, come ha indicato che farà nel 2022 in occasione delle prossime elezioni. Questo, almeno, eviterebbe che un sostenitore della ‘hard’ Brexit diventi Primo Ministro, scongiurando il caso peggiore, che è quello di uscita dall’UE senza alcun accordo.

 

Benché una Brexit senza accordo è ancora possibile, in questi giorni, l’UE ha dato segnali che potrebbe concedere un’estensione dei termini previsti dall’Articolo 50 fino a luglio. Così facendo, estenderebbe il periodo di due anni previsto per la negoziazione di un accordo di transizione che inizia non appena uno Stato Membro attiva l’Articolo 50, confermando la propria volontà di uscire dall’Unione. Ciò ritarderebbe la Brexit, scongiurando un’uscita senza accordo al 29 marzo, secondo il calendario attuale. Questo scenario aprirebbe diverse alternative: elezioni anticipate o una corsa per la direzione del partito; oppure, la May potrebbe cercare di riguadagnare consensi sull’accordo attuale e sottoporlo nuovamente al voto del Parlamento; o anche l’accordo potrebbe essere modificato sotto la guida della May o di un altro Primo Ministro.

 

Qualsiasi modifica all’accordo dovrebbe risolvere il nodo nordirlandese e la questione del backstop, soprattutto considerando il ruolo che i Democratici Unionisti hanno nel puntellare il governo conservatore. Molti chiedono alla May – finalmente – di cercare un accordo di transizione che sia capace di superare le differenze fra i partiti e trovare un largo consenso politico. Un'altra alternativa sarebbe quella di sottoporre una qualche versione dell’accordo di transizione ad un secondo referendum che richiamerebbe alle urne i cittadini britannici – una sempre più insistente campagna per un voto popolare ha guadagnato terreno negli ultimi mesi. Forse, questa eventualità proverebbe ancora una volta che i politici tentano di sciogliere i nodi gordiani provocati dalle lotte interne ai propri partiti rimandandoli al voto popolare.

 

Qualsiasi previsione sul voto sarebbe, come ormai noto, difficile; tuttavia, i britannici potrebbero aver perso la loro vocazione al voto di qualsiasi tipo, incluso quello referendario. Ribaltare la decisione di lasciare l’UE è un punto di discussione per molti. È ben vero che il risultato del referendum del 2016 non era legalmente vincolante, ma i politici britannici si guardano bene dal prendere posizione contro ‘la voce del popolo’ – anche se ci si potrebbe dilungare sulla reale democraticità di un referendum che esprime la vittoria di una parte con un risultato tanto risicato, così come sulla disinformazione che ha caratterizzato la campagna referendaria. A questo punto, una modifica dell’accordo sotto la guida della May è l’alternativa più probabile, o forse quella in cui molti sperano in mancanza della possibilità di rimanere nell’Unione. Ciò, almeno, eviterebbe una Brexit senza accordo, che è la peggior soluzione possibile visti i danni che ne deriverebbero sia per i cittadini britannici sia per i cittadini europei che vivono nel Regno Unito. Quanto la May sarà capace di trovare sostegno nelle altre forze politiche o, più in generale, nei cittadini del Regno Unito rimane da vedere.

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