Brexit e la cruna dell'ago: le vie strette del recesso dall'Unione europea - Parte II


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Luisa Antoniolli, Scuola di studi internazionali e Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento (parte1)
Da quel fatidico 23 giugno 2016 ne è passata di acqua sotto i ponti della Brexit. Colpi di scena e déja-vu si sono succeduti a ritmi serrati, ma alla fine dei conti lo scenario è rimasto sostanzialmente invariato dal giorno dopo il referendum sulla Brexit: il Regno Unito deve ancora decidere in modo irreversibile se uscire o no dall’Unione europea, e nel caso scelga di farlo, in quale modo. Cerchiamo di fare un po’ di ordine nel guazzabuglio di eventi degli ultimi tre anni per cercare di dare qualche elemento di valutazione degli scenari futuri (certamente non delle previsioni, ché nemmeno Nostradamus potrebbe cimentarsi…).
Un processo che dovrebbe condurre alla Brexit in seguito all’esito del referendum del 2016 ha messo in luce una serie di rilevanti criticità, che stanno incidendo non solo sui rapporti fra Gran Bretagna e Unione europea, ma anche sui delicati equilibri politici ed istituzionali interni. L’esito della vicenda, fra alti e bassi, appare tutt’altro che scontato (Qui la prima parte del blog).
In estrema sintesi, si può affermare che in base all’accordo di recesso il Regno Unito continuerebbe in buona parte ad essere vincolato dalle principali normative europee (comprese quelle in materia di libera circolazione delle persone, inizialmente respinte frontalmente). Soprattutto, viene fissato un punto irrinunciabile per l’Unione europea, che apre un fronte esplosivo per la Gran Bretagna, cioè quello del trattamento dell’Irlanda del Nord: non solo si prevede che non venga introdotta una frontiera rigida fra Irlanda e Irlanda del Nord (si esclude cioè l'hard border), ma si stabilisce che questa situazione sia garantita anche in caso di mancato accordo sulle relazioni future fra Uk e Ue (il cd. “backstop”).
D’altronde, nonostante i pindarici voli di parole utilizzati per trovare soluzioni “creative”, la situazione da un punto di vista teorico è molto netta: o viene creato un confine rigido fra Irlanda e Irlanda del Nord, e questo è totalmente inaccettabile per l’Unione europea (che sul punto è sempre stata graniticamente schierata con l’Irlanda, chiarendo che il punto non è negoziabile); oppure si garantisce uno spazio aperto fra Irlanda e Irlanda del Nord, e a questo punto il confine deve essere spostato fra Irlanda del Nord ed Inghilterra, situazione indigesta per l’Inghilterra.
Tertium non datur, non ci sono vie di mezzo. L’accordo di recesso, e soprattutto il backstop, garantiscono la soluzione voluta dall’Ue, e questo naturalmente ha creato tensioni fortissime nel Regno Unito, prima di tutto perché rischia di riaprire la dolorosissima ferita della guerriglia in Irlanda del Nord, che si era faticosamente chiusa in modo pacifico con il cd. accordo del venerdì santo del 1998, creando così problemi che sono prima di tutto di ordine pubblico e di sicurezza, prima ancora che di mercato.
In secondo luogo, la tensione sull’Irlanda del Nord ha generato onde d’urto che sono rapidamente arrivate fino alla Scozia, la quale già nel 2014, insoddisfatta dei risultati della cd. devolution (cioè del forte decentramento di poteri voluto dal governo Blair alla fine degli anni ’90), aveva indetto un referendum sulla secessione dal Regno Unito, il cui esito era stato a favore del mantenimento dell’unione con un margine piuttosto ristretto (55%).
La Scozia, che ha votato a larga maggioranza a favore del remain (62%) nel referendum sulla Brexit, ha quindi deciso di riaprire il dibattito sulla secessione: la premier scozzese Sturgeon ha ufficialmente comunicato di voler indire un nuovo referendum entro il 2021, i cui esiti sono difficilmente prevedibili (anche per le tensioni che possono generare nell’Unione europea, dove sussistono diverse situazioni parzialmente simili e molto calde, come quella catalana), ma che certamente metterebbero a dura prova la tenuta dell’unità politica della Gran Bretagna.
Nel frattempo, l’orologio della Brexit ha continuato a ticchettare inesorabilmente. I due anni previsti dall’art. 50 del Trattato Ue per l’uscita automatica in caso di mancato accordo sarebbero scaduti il 29 marzo 2019. Preso faticosamente atto dell’impossibilità di far passare in Parlamento entro il termine l’accordo concluso con Bruxelles, Theresa May ha chiesto una prima proroga il 20 marzo, che è stata concessa dal Consiglio europeo fino al 22 maggio 2019 (la data ultima per non dover partecipare alle elezioni europee di fine maggio). A fronte di un’ennesima bocciatura dell’accordo in Parlamento, il 5 aprile 2019 la premier ha chiesto una seconda proroga fino al 30 giugno; per parte sua, il Consiglio europeo la ha concessa, ma con scadenza al 31 ottobre, e il conseguente obbligo di partecipare alle elezioni del Parlamento europeo (con la paradossale conseguenza che in Gran Bretagna si è prodotto un vero e proprio terremoto politico per un’elezione in cui teoricamente i parlamentari scelti non dovrebbero nemmeno mettere piede nell’emiciclo europeo…).
La frattura del paese resa palese dall’esito del referendum si è propagata come una scossa tellurica all’interno dei partiti e del Parlamento. Il tentativo della premier di ottenere l’assenso del Parlamento sull’accordo da lei negoziato per una Brexit “ordinata” è stato battuto per ben tre volte, ed ha aperto delle fratture gravissime sia nel campo del partito conservatore, al governo, che di quello laburista, all’opposizione, esacerbando le divisioni fra chi è favorevole alla Brexit e chi è contrario.
L’unica mozione votata dal Parlamento in modo bipartisan (ma per un solo, risicatissimo voto) è stata quella che esclude la possibilità di una hard Brexit, cioè del recesso senza un accordo. Peraltro, il tempo gioca a sfavore di questa opzione: se entro la fine di ottobre non verrà votato l’accordo negoziato da Theresa May (cosa che appare decisamente improbabile), o non verrà votato un nuovo accordo che possa essere accettato dall’Unione europea (cosa che appare altrettanto difficile), lo schianto della hard Brexit appare difficilmente evitabile, a meno di un ulteriore proroga dai confini temporali e sostanziali totalmente indefiniti.
In seguito ad una costante emorragia di ministri, ed alle scottanti sconfitte nei voti parlamentari, la tenacissima Prima ministra britannica ha gettato la spugna, ed il 24 maggio ha annunciato, in un discorso pubblico altamente emotivo per un politico britannico, che il 7 giugno lascerà la guida del partito conservatore e del governo. La decisione è conseguenza anche dell’altra vicenda cruciale che ha travolto il sistema politico britannico, ovvero la débacle del partito conservatore alle elezioni europee, che il Regno Unito ha dovuto obtorto collo accettare, avendo chiesto una proroga del termine di uscita dall’Ue: il partito di governo è uscito con un risultato ad una sola cifra (il 9%), ed i due principali partiti nazionali, labour e tories, insieme non hanno raggiunto nemmeno il quarto dei voti (appena oltre il 22%); l’unico partito tradizionale che cresce è quello liberale, che, avendo coerentemente sempre tenuto una posizione favorevole a rimanere nell’Ue, ha sfiorato un notevole 20%. Per contro, un partito nato nel giro di pochi mesi, e il cui unico punto del programma politico è la hard Brexit, cioè il Brexit party del redivivo Farage, ha rastrellato il 30% dei voti, dando una formidabile spallata al sistema politico esistente.
A questo punto, si aprono diverse ipotesi. Potrebbe esserci un nuovo governo conservatore, la cui guida sarà probabilmente affidata ad un nuovo Primo ministro più spostato verso una Brexit dura: in pole position, l’istrionico Boris Johnson ha lanciato la propria candidatura alla leadership del partito e del Paese affermando che la data del 31 ottobre 2019 non può essere assolutamente prolungata, e che il Regno Unito dovrà ad ogni costo ottenere l’eliminazione del punto sull’assenza di frontiere fra Irlanda e Irlanda del Nord, sia nell’accordo di recesso che nel backstop. Se non nel nome, nella sostanza questa è la famigerata hard Brexit. In ogni caso, chiunque sarà alla guida del governo farà fatica ad ottenere la fiducia in Parlamento, visto l’oggettiva assenza di consenso su un progetto e le ormai frequenti defezioni dei parlamentari di ambo i lati.
Se si dovesse invece decidere di indire nuove elezioni parlamentari, in vista della formazione di una nuova maggioranza ed un nuovo governo, il quadro rimarrà comunque molto complesso. L’esito del voto appare imprevedibile dopo l’implosione del sistema partitico tradizionale, ma sicuramente rifletterà la crescente polarizzazione e spaccatura dell’elettorato. Inoltre, dovrà fare i conti con la spada di Damocle della scadenza di fine ottobre 2019 per la hard Brexit, dove la concessione di un’ennesima proroga (la terza) da parte dell’Unione europea appare difficile a fronte di un quadro per un futuro accordo completamente nebuloso, nonché di una serie di scadenze interne delicatissime (nomine di presidente della Commissione e della Bce, elezione del Presidente del consiglio europeo, definizione del bilancio pluriennale Ue).
Sullo sfondo si agita un ulteriore cruciale dibattito interno al Regno Unito, trasversale ai partiti, riguardo alla possibilità di indire un secondo referendum popolare per decidere se restare o no nell’Unione europea. Anche questa è un’opzione estremamente problematica, dato che già il referendum del 2016 ha dimostrato la difficoltà di porre in termini secchi si/no una scelta così complessa, ed in cui teoricamente occorrerebbe proporre ai cittadini britannici almeno tre opzioni (rimanere; uscire con l’accordo May o un altro accordo tutto da definire; uscire senza accordo), con tutto quello che ne consegue in termini di frammentazione degli esiti. Insomma, la navicella impazzita britannica si avvicina pericolosamente ad un buco nero in cui potrebbe essere risucchiata senza più possibilità di invertire la marcia.
Difficile trovare una strada sicura in questo ginepraio. In sintesi, si capisce che per chi ha invocato a gran voce la Brexit come un taglio netto con tutto quello che riguarda l’Unione europea, una sorta di catarsi attraverso cui ritrovare tutto il lustro e la libertà dei bei tempi passati, il risultato non sia entusiasmante. D’altra parte, il problema è stato plasticamente descritto da chi ha sostenuto che per uno Stato membro uscire dall’Unione europea dopo decenni di intensa integrazione è come “levare le uova dalla frittata”: un’operazione ardita, e dagli incerti risultati.
Ma in questi tempi di massimalismi, discutere pacatamente dei pro e contro di un’operazione complessa e rischiosa, che deve tenere conto di molti fattori (economici, sociali, culturali, geo-politici) e delle loro interazioni, è un’opzione assai poco gettonata. E’ un’operazione che risulta quasi impossibile in un contesto fatto di rivendicazioni roboanti e prive di compromessi. Ma la parola chiave, per quanto desueta e consunta, è e continuerà ad essere proprio questa: compromesso. Compromesso fra le forze politiche all’interno del Parlamento britannico, compromesso fra le diverse aree del Paese, compromesso fra le polarizzate componenti sociali, e, ultimo ma non ultimo, compromesso fra il Regno Unito e l’Unione europea.
Se non lo si trova ora, toccherà cercarlo dopo, con costi politici, sociali ed economici elevatissimi (come hanno ricordato politici navigati di diverse collocazioni politiche, da Blair ad Heseltine), per il Regno Unito ed anche per l’Unione europea. Perché il Regno Unito, piaccia o no, continua ad essere Europa, e continua a condividerne le sorti, buone e cattive. La Gran Bretagna può anche decidere che l’Unione europea non le piace affatto (e va detto che ci sono elementi di sostanza per non amarla così com’è adesso), ma semplicemente voltarle le spalle non la sposterà in un altro continente.