America first e commercio internazionale: un sistema complesso oltre la retorica semplicistica


Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento
di Andrea Fracasso, economista, Direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di trento
Il tema dell’apertura dei paesi al commercio internazionale è tornata di grande attualità nelle ultime settimane a cause di due eventi. La decisione dell’Amministrazione americana di limitare ulteriormente le importazioni di pannelli solari e lavatrici e la conseguente discussione in seno all’annuale incontro del World Economic Forum a Davos sui meriti e demeriti dell’apertura (o chiusura) commerciale. In questo ampio dibattito è importante distinguere tre fenomeni diversi, ma collegati, che riguardano la repentina decisione dell’Amministrazione Trump.
Il primo aspetto riguarda il grado di apertura al commercio degli Stati Uniti verso i partner, il secondo riguarda l’adozione di un approccio unilaterale, invece che multilaterale, nel gestire le loro relazioni commerciali, il terzo riguarda l’efficacia delle misure intraprese rispetto agli obiettivi perseguiti. In merito al primo aspetto è giusto riconoscere come il livello ottimale di apertura al commercio internazionale di un paese sia legittimamente oggetto di dibattito perché i benefici netti di ogni misura di liberalizzazione o di chiusura sono molto diversificati tra persone e imprese. Un accordo, anche ottimo quando negoziato, può risultare non pienamente soddisfacente se le economie si trasformano nel tempo, se intervengono fenomeni imprevisti o se arrivano shock esterni.
E’ quindi normale che vi sia un vivo dibattito sul grado di apertura da preferire. Il problema è però duplice. Da un lato, ci si deve interrogare come tale dibattito nazionale debba svolgersi perché siano valutati bene gli effetti diretti e indiretti delle misure, senza cadere in spiegazioni demagogiche e semplicistiche. Dall’altro ci si deve interrogare sulle modalità più opportune per il confronto internazionale tra paesi: battere i pugni sul tavolo dovrebbe appartenere al passato. Riguardo quest’ultimo punto vi è un sostanziale accordo che l’adozione di un approccio unilaterale al commercio sia peggiore di uno multilaterale. Il problema con la decisione dell’Amministrazione Trump è proprio che, pur essendo legittima nell’ambito delle norme attualmente in vigore, si accompagna a dichiarazioni molto aggressive contro il sistema in vigore. Il Presidente ha sì preso decisioni mirate, limitate e non palesemente contrarie agli accordi internazionali, ma ha lasciato intendere che questo è l’inizio di un approccio più unilaterale e deciso degli Stati Uniti per proteggere la produzione interna dalla concorrenza estera.
L’adozione del metodo multilaterale per la discussione dei temi relativi al commercio (in passato tramite l’accordo GATT e ora nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio) rappresenta il passo avanti fondamentale che ha permesso di affrontare in modo costruttivo le sfide del dopoguerra, del post-colonialismo e del dopo guerra fredda. Il sistema multilaterale prevede che gli accordi di liberalizzazione degli scambi internazionali (che comportano minori dazi e, più in generale, minori restrizioni alle importazioni) siano basati sul principio di reciprocità e riguardino una negoziazione congiunta del trattamento che tutti i paesi devono riservare a tutti i prodotti provenienti da tutti i paesi. Inoltre, tali negoziazioni individuano delle precise circostanze che legittimano i paesi a difendersi da soli contro comportamenti illegittimi o impropri compiuti da parte di imprese estere (ad esempio in caso di vendita sottocosto - dumping) o di governi stranieri (è il caso degli aiuti di stato che alterano una equa competizione internazionale). Queste norme servono a evitare delle reazioni sproporzionate e ingiustificate di singoli paesi, motivate solo dal desiderio di compiacere questo o quel produttore nazionale vicino al governo o al parlamento in carica.
Queste caratteristiche degli accordi multilaterali garantiscono che
i) ogni paese conceda una maggior apertura alle importazioni da altri paesi in cambio di simili concessioni da parte dei partner
ii) ogni paese riceva un trattamento certo e prevedibile, non soggetto ai cambiamenti di “umore politico” dei partner
iii) ogni paese sia partner dell’intero pacchetto di accordi e non possa subire dei cambiamenti decisi da sottogruppi di paesi dopo che l’accordo è entrato in vigore.
Eccezioni a questi principi possono andare solo nella direzione di favorire il commercio in modo ancora maggiore rispetto a quanto previsto dagli accordi multilaterali, come per esempio avviene con gli accordi regionali per creare un mercato comune (Nafta) o un’unione doganale (Unione Europea). Alcuni osservatori e politici italiani, propensi a cavalcare l’umore nazionalista di questi tempi, apprezzano la mossa dell’Amministrazione Trump perché mirata a proteggere le imprese americane esposte alla competizione in quei due settori. Il cuore della politica America first. Quello che questi osservatori dimenticano sono alcune considerazioni che provo qui a esporre su punti menzionati prima: efficacia delle misure, pericolosità dell’unilateralismo, complessità della situazione.
Primo. Come detto, gli accordi internazionali non proibiscono affatto l’autodifesa dei paesi da comportamenti lesivi della concorrenza messi in essere da parte di imprese e governi stranieri. Già da tempo gli Stati Uniti avevano imposto dei dazi aggiuntivi (antidumping e countervailing duties) sui pannelli solari provenienti dalla Cina e da pochi paesi ritenuti colpevoli di distorcere la concorrenza. La mossa americana di questi giorni consiste nell’estendere le restrizioni a tutti i paesi al fine di “salvaguardare” questi settori dell’economia americana dall’eccessivo aumento di importazioni registrato negli ultimi anni. La decisione si basa, ufficialmente, sull’osservazione che le restrizioni alle importazioni dalla Cina hanno stimolato un processo di triangolarizzazione per il quale le merci (o le imprese) cinesi hanno iniziato a passare per un paese terzo (per esempio la Corea del Sud e la Malesia) per arrivare poi negli USA. In questi due settori, quindi, gli Stati Uniti ritengono opportuno proteggersi da tutte le importazioni e non solo dalle importazioni sotto costo o sovvenzionate. Una motivazione ufficiale che non ha precedenti nemmeno nelle poche occasioni in cui tali salvaguardie sono state applicate in passato. Una motivazione che legittimerebbe interventi continui al variare degli scambi tra aree.
Secondo. Una eventuale espansione di questo approccio restrittivo unilaterale su numerosi altri settori esporrebbe tutti i paesi e tutte le imprese all’incertezza sul valore degli accordi siglati. Cosa direbbe un esportatore trentino di mele se improvvisamente gli Stati Uniti imponessero delle barriere alle sue esportazioni per via di un aumento di importazioni di mele da alcuni paesi sudamericani (assumendo che i sudamericani producano mele)? Si preoccuperebbe della cosa e non gioirebbe perché Trump si comporta da “padrone a casa sua”, per usare una diffusa e brutta espressione. L’abuso degli strumenti unilaterali di protezione mette in crisi l’intero sistema e toglie fiducia nella validità degli accordi, con ricadute sugli investimenti produttivi. Le guerre commerciali cominciano sempre così.
Terzo. La ragione per estendere le restrizioni commerciali a tutti i paesi può essere effettivamente dovuta alle triangolarizzazioni di cui sopra. La ragione potrebbe però essere anche un’altra. L’imposizione da parte degli USA di restrizioni all’importazioni cinesi poteva favorire i produttori americani solo se tutti gli altri produttori internazionali fossero stati meno competitivi di quelli americani. E’ invece possibile che le importazioni americane da paesi diversi dalla Cina abbiano soppiantato quelle cinesi perché i produttori americani non sono mai stati sufficientemente competitivi. In questo caso le nuove misure di protezione delle imprese americane costringono i consumatori americani a pagare il costo della minor efficienza dei produttori locali: si tratta di un sussidio pagato dai consumatori a favore di imprese non efficienti. Una protezione temporanea nel passato avrebbe forse consentito alle imprese statunitensi di organizzarsi, divenire più efficienti e quindi competitive. Ora però solo il 20% del mercato americano dei pannelli solari è coperto da produttori locali e quindi non è chiaro chi queste misure proteggano veramente.
Quarto. Visto che la conclusione degli accordi commerciali si basa sulla reciprocità della liberalizzazione tra paesi, la compromissione degli accordi in un settore da parte di un paese conduce spesso a risposte uguali e contrarie in altri settori da parte del paese colpito. E’ il fenomeno della rappresaglia (tipo legge del taglione, per intendersi). Maggiori dazi sulle importazioni di pannelli solari dalla Corea del Sud possono forse aiutare le imprese americane nel campo dell’energia solare, ma se la Corea rispondesse a queste misure con più alti dazi sui computer americani, di questi ultimi subirebbero ingenti perdite. I lavoratori americani protetti dai dazi sui pannelli solari sarebbero più o meno di quelli penalizzato dalla reazione coreana sui computer? Quale sarebbe l’effetto netto per il paese? La reciprocità negli accordi si accompagna alla reciprocità nei disaccordi, questo non va dimenticato.
Quinto. Negli ultimi vent’anni il commercio internazionale di prodotti intermedi è alla base di quelle che vengono chiamate catene globali del valore. I prodotti complessi, infatti, non vengono prodotti interamente in un paese ma le loro componenti vengono prodotte dove è più vantaggioso, poi importate e assemblate in un altro paese, poi ulteriormente processate in un altro paese ancora, e il tutto viene seguito da servizi di vendita e di post-vendita operati in ulteriori paesi. L’imposizione di restrizioni all’importazioni di beni intermedi negli Stati Uniti può portare a una maggior produzione americana di tali beni ma a prezzi maggiori; questo rappresenterebbe un amento dei costi per i produttori dei beni finali americani e quindi anche dei prezzi di questi ultimi. L’effetto di tutto questo sui consumatori sarebbe negativo. Tutelare i lavoratori di un settore è importante, ma anche il consumo e il potere di acquisto dei cittadini merita protezione. Chi vince, chi perde? Questi sono i quesiti difficili cui dare una risposta prima di dire “sono d’accordo” o “sono in disaccordo”.
Sesto. L’industria dei pannelli solari non conta solo i produttori dei pannelli. Anzi. Una delle categorie di lavoro che ha avuto la migliore performance negli Stati Uniti è quella degli istallatori e dei manutentori dei pannelli (e oltre questi anche persone coinvolte nel finanziamento degli investimenti). Quale impatto avrà su queste figure l’aumento dei prezzi americani dei pannelli che la misura protezionista americana causerà? Sicuramente negativo: prezzi più alti, minori consumi, minori istallazioni, minori finanziamenti, minori manutenzioni. Qual è il peso relativo di una ingegnere impegnata nella produzione americana di pannelli rispetto a quello di una lavoratrice dei servizi coinvolta nella manutenzione? La decisione di Trump sta implicitamente suggerendo che la manifattura conta di più. Una posizione legittima ma non esplicitamente argomentata e quindi poco trasparente.
Settimo. Il Presidente Trump sostiene che i dazi creeranno incentivi per le imprese americane all’estero a ritornare a produrre in loco (re-shoring) e per le imprese straniere a fare investimenti produttivi negli Stati Uniti, creando ulteriore lavoro negli States. Discorso tutt’altro che infondato se si considera anche la forte riduzione delle aliquote di tassazione sui profitti di impresa che l’Amministrazione ha da poco deliberato. Una duplice mossa che sembra in effetti aver trattenuto imprenditori americani e anche attirato investimenti esteri. Ma chi beneficia di questi investimenti? Soprattutto gli azionisti delle imprese che possono ora trattenere gran parte dei profitti (e trasferirli ove credono). In generale, ci potranno quindi essere più lavoratori americani impegnati in certi settori (ma non in tutti, come ho scritto sopra), i prodotti protetti costeranno certamente di più e ci saranno profitti più alti (per l’1% più ricco della popolazione) cui corrisponderanno però minori tasse e minore spesa sociale (per il rimanente 99%).
Quale l’effetto finale per la cittadina o il cittadino medio? Quale per il colletto bianco di Seattle, l’operaia di Chicago, la programmatrice californiana, il centralinista di Dallas? Difficile da dire, per nulla scontato. Stupisce quindi la sicurezza di alcuni osservatori nostrani nell’applaudire Trump e la “fine” della globalizzazione.
In ultima analisi, la svolta protezionista dell’Amministrazione Trump ha effetti complessivi ambigui e imprevedibili, ma ha un valore simbolico evidente e pericoloso. Ben ha fatto la Cancelliera Merkel a ribadire l’importanza del multilateralismo nel commercio (e non solo) e a ricordare i costi invisibili dell’approccio unilaterale e della chiusura agli scambi. Avere una politica commerciale autointeressata e rispondere con forza alla competizione scorretta è legittimo, anzi necessario. Scardinare il longevo sistema di gestione globale degli scambi, insieme al suo strutturato meccanismo per la pacifica gestione delle controversie commerciali, è invece pericoloso. Meglio piuttosto impegnarsi a correggere le storture del sistema attraverso lo stesso approccio multilaterale senza perdere anche i risultati positivi conseguiti fin qui.